Oltre le Olimpiadi
Phelps, acqua e tempo
Pensieri (di una nuotatrice) in margine alle gare di Rio. Dove l'acqua è leggera nelle mani di Phelps, come lo era per Goethe, e pesante in quelle della Pellegrini. Una lunga nuotata dentro la storia
Michael Phelps avanza nell’acqua come un autentico delfino: le sue evoluzioni, tra potenza e grazia, sono un piacere per gli occhi degli spettatori. Lo stile nel quale si è confermato il più grande campione mondiale, battendo l’avversario giapponese per pochi secondi, in una gara assai avvincente (200 metri farfalla in 1:53,36), è il più spettacolare, la nuotata più elegante, sinuosa, per altro la più faticosa, ma nulla traspare dalla perfezione dei movimenti. L’americano, nato a Baltimora nel 1985, è capace di controllare l’emotività, di gareggiare a sangue freddo, dosando sforzo e velocità sino allo sprint finale. Non è da tutti. La nostra Pellegrini, deludente nei duecento stile libero, dove ha mancato il podio, ha usato la parola «incubo» (più o meno come la tuffatrice Tania Cagnotto) per indicare la pressione emotiva cui ogni atleta è sottoposto negli allenamenti in preparazione di un’Olimpiade, ma soprattutto durante le competizioni, autentica prova di forza che comporta tensioni spesso insuperabili.
Non esiste sport nel quale manchi – negli eventi determinanti – un carico di mente e anima in grado di fiaccare la resa fisica: gambe e braccia possono indebolirsi e non sviluppare la massima potenzialità di cui sono capaci. Nel nuoto tuttavia c’è un ulteriore elemento con il quale ci si deve misurare: l’acqua. Ogni essere è fatto d’acqua per almeno sette decimi del corpo. Nell’acqua, nel liquido amniotico, siamo immersi per nove mesi della nostra vita prenatale. Grandi scrittori hanno espresso in forma poetico-letteraria sublime quel quid che fa dell’acqua un elemento impermanente e inafferrabile, uno stato indefinibile dell’esistenza: «L’acqua è qualcosa che va oltre la somma delle sue parti, qualcosa di più di due atomi di idrogeno e di ossigeno. Ma c’è anche un terzo elemento che la rende acqua e nessuno sa cosa sia» (D.H. Lawrence); «Siamo fatti d’acqua e di tempo; la carne, le ossa e il sangue sono un incidente postumo. Anche la bellezza è nascosta nell’acqua…» (Josif Brodskij).
Viene da domandarsi se Phelps abbia percepito sotto le dita l’acqua della piscina olimpionica di Rio come morbida, scorrevole, veloce, dal momento che è riuscito a domarne la resistenza, scivolando in essa come un siluro. Per contro, Federica l’avrà sentita dura, ostile, lenta come mai in vita sua. Ogni nuotatore è dotato di un proprio “umore acquatico” e ha un rapporto mistico con l’acqua. Quasi tutti gli animali sanno nuotare, persino i giganteschi pachidermi possono muoversi in acqua con una delicatezza che non sorprende in assenza di peso e che sulla terra sarebbe irripetibile. Ma l’essere umano ha con l’acqua una relazione particolarissima: quando non ne ha paura, quando impara a “sentirla” e ad abbandonarvisi, se diventa un nuotatore in grado di stare nell’acqua come sulla terra, in perfetta sintonia, allora, solo allora potrà toccare l’estasi. Il segreto sta nel rispettarla senza temerla; in cambio, l’acqua restituirà un tale stato di benessere che il corpo immerso in essa sentirà un tripudio di adrenalina, dopamina, endorfine, le molecole del piacere. La capacità di entrare in sintonia con l’acqua è alla base per esempio del metodo di allenamento praticato dal coach della squadra olimpica australiana.
Appena si immerge nell’acqua, ogni nuotatore resta solo con se stesso, sospeso sul mondo come nei sogni. Non è un caso che i nuotatori, che macinano vasche in piscina o chilometri in acque aperte, siano in genere introversi, eccentrici individualisti chiusi in un universo mentale particolare. Al mare, dove la composizione salina fa galleggiare senza fatica e amplifica l’effetto dei movimenti aumentando la velocità, le sensazioni prodotte dall’acqua e dai raggi del sole sviluppano un autentico piacere sensuale: il poeta inglese Byron amava denudarsi per penetrare la magia dell’acqua che odorava di menta e di fango. Lo stesso faceva la scrittrice francese Colette che negli anni Venti insegnò a nuotare al figliastro Bertrand sulla costa bretone: in questo caso l’acqua diventava metafora di iniziazione al nuoto e insieme ai gesti amorosi. Forse non tutti sanno che l’austero Goethe faceva il bagno tutto l’anno, persino di notte in pieno inverno, nel fiume che scorreva in fondo al suo giardino, a Weimar, e che il nuoto occupava un posto significativo nella mente di Shakespeare.
Il nuoto permette agli scrittori che hanno bisogno di silenzio e di riflessione un vero distacco dalle asprezze della vita, favorendo ricordi, e un flusso ininterrotto di pensieri che accompagna il movimento istintivo di braccia e gambe, e il ritmo del respiro come durante la meditazione. La gioiosa essenza del nuoto contagia persino coloro che fanno del nuoto una professione, una missione: non sarebbe possibile trascorrere in piscina ore e ore ogni giorno, percorrendo monotonamente vasche su vasche, se in questo esercizio di resistenza non fosse compresa una dose di felicità. Il corpo dei nuotatori, in modo particolare, si adatta a tal punto a tale simbiosi da modificare la fisionomia, nella forma e nelle proporzioni. Sembra quasi una mutazione, una specializzazione; basta osservare attentamente gli atleti: mostrano quasi tutti muscoli lunghi e flessibili, spalle larghe, possenti, giro vita e bacino stretti, braccia tornite, mani e piedi prensili, di lunghezza notevole.
Guardando le gare di Rio nelle riprese televisive (bello quando si può vedere anche sotto il livello dell’acqua!) non ho potuto fare a meno di notare quanto alcuni stili, nel tempo, siano mutati. Persino quel movimento subacqueo delle gambe unite a delfino che permette di guadagnare metri in velocità nella fase della partenza, dopo il tuffo; oppure il movimento degli arti anteriori nella rana, con una elevazione simile al delfino; o infine la bracciata nel dorso, con l’avambraccio piegato a gomito alto, per spingere meglio, e nello stile libero il percorso sott’acqua del braccio. Tutto cambia, tutto si evolve. L’importante è che ogni novità o perfezionamento sia codificato dalle federazioni e reso regolamentare nelle competizioni.
Pochi sanno che si deve agli inglesi la passione per il nuoto, l’invenzione e codificazione dei vari stili. Se negli storici della classicità, come Plutarco, Svetonio, Tacito, o in poeti come Ovidio, Virgilio, e persino nella Bibbia, non mancavano accenni all’arte natatoria, ovvero la capacità di condottieri e militari di attraversare tratti di fiumi per sfuggire al nemico, reggendo armi e vettovaglie; se dunque il nuoto nei precordi era appannaggio di soli uomini impegnati nell’arte della guerra, di pochi aristocratici durante esplorazioni o viaggi, è evidente che nella storia dell’umanità ha rivestito inizialmente l’aspetto di una via di fuga o di salvezza, oppure di necessità, di spostamento.
In Gran Bretagna e in Scozia a partire dal Medio Evo e successivamente nel Cinquecento, si cominciò a praticare il nuoto in fiumi e laghi con una certa sistematicità, dimostrata dal fiorire di trattati su modi e stagioni del nuotare, sugli effetti dell’acqua calda oppure fredda sui corpi, sul pericolo di crampi. La cittadina di Eton andava famosa sul finire del Sedicesimo secolo per il nuoto nel Tamigi praticato dai giovani universitari del College.
E fu proprio un inglese, il reverendo Edward Digby, a compilare il primo vero manuale di nuoto, in latino, nel 1587: De arte natandi, arricchito da disegni (che illustrano questo articolo), tradotto in inglese ad opera di Christofer Middleton, qualche anno dopo, nel 1595. Lo scopo di Digby era quello di far uscire il nuoto da uno stato di profonda ignoranza, illustrando in due volumi teoria e tecnica per uomini e donne (finalmente!), e descrivendo i vari stili. È un manuale bellissimo e molto interessante: l’atto di nascita ufficiale di una disciplina destinata ad attecchire soprattutto presso gli inglesi, diventando anche uno sport adatto alla salute, al benessere, al piacere, e un’autentica mania. Non fu da meno nel medesimo secolo il nostro Leonardo da Vinci che nel suo trattato dedicato alle acque si inventò sci d’acqua, boccaglio, salvagente e pinne per le mani e per i piedi.
Ai nostri tempi, solo un inglese, Roger Deakin, alla fine degli Anni Novanta, poteva concepire l’idea bizzarra di un viaggio a nuoto attraverso la Gran Bretagna, bagnandosi in qualsivoglia pozza d’acqua, da stagni a fiumi, laghi, rivoli, ruscelli, fiumiciattoli (Waterlog ovvero Diario d’acqua, EDT 2011). Sicuramente avrà letto e sarà stato ispirato da un libro formidabile come L’ombra del massaggiatore nero, Il nuotatore questo eroe, dell’irlandese Charles Sprawson (Adelphi 1992). La storia del nuoto è un’avventura piena di fascino, di padri e antenati coraggiosi, un po’ folli, malati di quella malìa che contagia tutti coloro che nell’acqua diventano simili alla creature marine e si sentono foche, delfini, balene, persino minuscoli ippocampi o pesci volanti. Non è forse simile al volo lo slancio del nuotatore?
Negli Anni Sessanta facevo parte di una società, il Nuoto Club Italiano (tutt’ora esistente e glorioso), il cui fondatore e patron, un medico tedesco, il dottor Neumann, era un virtuoso dello stile e ad ogni allievo, in fase agonistica, imponeva il supplizio di lunghe sedute in acqua (come dire altrimenti che sedute? allungate?), a provare e perfezionare ogni minimo dettaglio dei movimenti, dall’entrata della mano in acqua, alla tensione del piede allungato, alla posizione del collo e della testa, della bocca aperta nella respirazione. I nostri allenamenti in piscina erano integrati da esercizi a secco in palestra, con un pompiere che ci introduceva all’arte del sollevamento pesi per aumentare la potenza muscolare. Ricordo anche piccole tavolette bianche di vitamine che si chiamavano Nike. Antecedenti un pochino ingenui e dilettanteschi rispetto ai tempi odierni, risibili rispetto alle vessazioni che subiscono Pellegrini o Phelps per esempio, oppure allo scandalo a proposito delle atlete russe su cui aleggia il sospetto di doping. La storia del nuoto è una progressione continua, è – per me, oggi – anche una catena di ricordi che mi lega ai volti, ai sorrisi, all’esuberante giovinezza dei compagni di nuoto, i campioni della nazionale dei miei tempi, tutti scomparsi nella tragedia di Brema (28 gennaio 1966). La sera precedente avevamo nuotato tutti insieme nella piscina Cozzi a Milano.