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Leggere e scrivere
Wislawa Szymborska, Susan Sontag, Raffaele La Capria: tre bei libri raccontano altrettanti modi di interpretare la vita (e l'amicizia) attraverso le parole
Poetare. Su che cosa sia la poesia ci si è interrogati da sempre, senza mai arrivare a una definizione esaustiva. Ma c’è una domanda all’interno della domanda: il poeta “deve” possedere un medio-alto livello di intelligenza? Personalmente penso di sì. Una conferma, se ce né bisogno, la fornisce la polacca Wislawa Szymborska (Premio Nobel nel 1996. Per le edizioni Adelphi è uscita la sua raccolta di recensioni letterarie, destinate a una rivista di Varsavia (Come vivere in modo più confortevole, 258 pag., 14 euro). Pagine deliziose, intrise di ironia e humour. Szymborska se la prende, in modo leggero ma pungente, contro lo snobismo di chi coltiva “l’antica aspirazione a sapere tutto, sia pure a grandi linee”. Recensendo un dizionario letterario, la poetessa afferma di “essere assaltata da considerazioni maliziose”. Ben vengano! Si chiede poi: «Tra tutte queste facce, qual è quella tipica dello scrittore?». E aggiunge:«Non si sa bene dove si vada a parare. Quelli dabbene hanno un’aria morbosa, quelli violenti sembrano degli agnellini, e gli spiriti più eletti si materializzano in fotografie che sembrano fatte apposta per essere accluse a mandati di cattura».
Il suo parere su questi ritratti: »Balzac sembra un oste, Joyce il contabile d’una impresa di pompe funebri, Eliot il direttore di una clinica psichiatrica, Heinrich Mann un farmacista che abbia appena deciso di avvelenare i suoi concittadini senza alcuna eccezione». Se Melville ed Hemingway «si collocano ai vertici della classifica», paiono assolutamente «fuori concorso», Ibsen «sembra un’allucinazione di un barbiere in preda a febbri terzane». Riferendosi ai visionari, ai poeti, ai frequentatori di città immaginarie, Szymborska scrive che il poeta è l’erede spirituale delle tribù primitive…e «finché non salta fuori dal suo vestitino, mostrandosi a tutti come un selvaggio ignudo con l’anello al naso…», ecco, questi appare proprio un selvaggio…del resto «come chiamare altrimenti una persona che chiacchiera in versi con i morti e i non nati, con gli alberi, gli uccelli e perfino con una lampada o la gamba del tavolo, senza ritenere tutto ciò un’idiozia?».
Scrivere. È stata narratrice, regista e attivista politica. Una delle mendi più brillanti che abbia conosciuto l’America in questi decenni. Susan Sontag (1933-2004) in una lunga e acuta intervista (Odio sentirmi vittima edita da Il Saggiatore, 155 pag., 20 euro) parla diffusamente di come abbia affrontato la sua malattia. Lo aveva già peraltro fatto in un suo libro. Quel che mi affascina è ciò che racconta sulla sua scrittura. Pagine dense e argute. Considera la scrittura «molto desessualizzante, e per me è uno dei suoi limiti». Sontag si confessa «molto irregolare», ma anche testarda nel concentrare tutta la sua energia (anche da malata) nella scrittura. Preferiva il «modo disadorno», ossia asciutto, misurato, liscio. E ancora: « Mi è sempre sembrato che l’elemento più deperibile di molte scritture fosse l’ornamento, e che lo stile destinato all’eternità debba essere disadorno. E porta un esempio. Se uno scrive “la strada è dritta” va bene, non altrettanto se si esprime con la ridondante frase “la strada è dritta come un filo”. Ebbene, si chiede: che relazione c’è tra l’una e l’altra affermazione? «Perciò continuo a provare un certo fastidio». Sulla presa di coscienza dello scrittore: «Sì, è un elemento davvero incredibile, poiché non appena sei conscio di qualcosa, prendi coscienza di qualcos’altro; e non appena formuli un ideale per te stesso, ne vedi tutti i limiti». E l’autobiografismo? Accettabile? Sontag afferma che la sua scrittura è aperta al mondo e non viene costretta da una ossessionante visione del sé. Come porsi dinanzi a un foglio bianco? «Per raggiungere la concentrazione necessaria a farlo non bisogna lavorare in una condizione di innocenza, bensì in uno stato di intensa interiorità, che rischia di dissolversi o dissiparsi se ci si adatta troppo a ciò che gli altri vogliono che tu sia o faccia, o se si bada troppo a ciò che pensano o scrivono di te e del tuo lavoro».
Molto vicini. Una raccolta di ritratti affettuosi, garbati talvolta dolenti, talvolta divertenti, quella di Raffaele La Capria (nato a Napoli nel 1922), autori di mirabili romanzi tra cui il celeberrimo Ferito a morte. Viene stampata da Nutrimenti (Ai dolci amici addio, 141 pag., 12,50 euro). Se non sbaglio, la frase del titolo è stata tratta dalla prosa dell’imperatore romano Marco Aurelio. Cita, condividendola, una frase di Goffredo Parise: «La cultura non è aver letto libri, è aver lavorato per capire». Del narratore vicentino ricorda una delle sue tante scorticanti frasi: «Sai, c’è da essere seriamente preoccupati. Hanno letto tutto Proust! Parlano di Joyce, di Freud! Citano Heidegger! Sono moderni, Rimbaud l’hanno preso alla lettera, il faut etre absolument moderne!». Alla domanda “ma di che stai parlando? Parise, che aveva come bersaglio gli intellettuali snob, rispose:«Dei cretini. Ha ragione Flaiano: oggi sono troppo pericolosi perché sono intelligenti. E scrivono bene, non l’hai notato? Si sono impadroniti del discorso…sì, sono talmente intelligenti che alle volte mi sembra di essere diventato un cretino». Ricordando Alberto Moravia, La Capria mette in luce la schiera dei tantissimi anti-moraviani, e aggiunge:«Neppure Pasolini è stato tanto osteggiato». Del narratore romano, ricorda l’umorismo, volontario e involontario. Di Elsa Morante: «Aveva il sorriso dell’etrusco, la faccia antica, Elsa, l’arcaica». Negli ultimi istanti della sua vita Morante ripeteva, citando il Conrad de “Il cuore di tenebra”: «Orrore, orrore!». E poi: «Con quella sua sensibilità stregonesca andava in fondo alle cose e ai pensieri, non si nascondeva niente, non si risparmiava niente». Di Anna Maria Ortese: «Guardo il pallido viso di lei ragazza, la mite intransigenza, gli occhi adombrati e come presaghi, la bocca appena sfiorata da una piccola piega amara».