Contro "L'Espresso“ e "Internazionale”
Le trappole del Ghetto
Si torna a parlare del Ghetto di Rignano. Ma stavolta, l'informazione "impegnata" mistifica, confonde e opacizza una limpida questione di razzismo e di diritti. Vediamo come e perché
Se ne era cominciato a parlare, della raccolta di pomodoro nelle campagne pugliesi: la stagione è adesso. Poi il terremoto ha spazzato via ragionamenti e proclami, analisi e promesse. Questa volta, forse, non è un gran danno. Perché il lavoro d’inchiesta vene fatto sempre più frettolosamente, e in modo superficiale. Perché sul Gran Ghetto sotto Rignano, in Puglia, su quell’equilibrio precario tra illegalità e solidarietà, ma che fornisce braccia ai produttori di pomodori, si è molto scritto e molto si sa. I proclami sul suo smantellamento sono inutili: si è formato spontaneamente, ma è molto utile al sistema produttivo, che non può farne a meno. L’unico modo per cancellarlo sarebbe riportare la legalità lavorativa, contratti di lavoro e abolizione del cottimo e del caporalato. La nostra industria l’accetterebbe? No, meglio parlar d’altro. Intanto bisogna trovare notizie nuove, di sensazione, che diano titoli nuovi. E questo spesso conduce in errore chi non ha tempo per approfondire.
I fatti nuovi ci sono: il governatore della Puglia, Emiliano, che promette uno sgombero dell’area da febbraio, ma se non l’ha fatto quando il Ghetto era spopolato difficilmente lo farà ora che tutte le baracche sono occupate da almeno duemila braccianti. Che alle aziende servono, anche se quest’anno ha piovuto poco e le macchine per la raccolta meccanica, che non possono entrare nei campi infangati, hanno potuto lavorare a pieno ritmo.
Un fatto nuovo è la manifestazione di duecento stranieri davanti alla Princes di Borgo Incoronata, la più grande fabbrica di trasformazione del pomodoro, alla periferia di Foggia. Duecento stranieri che chiedevano condizioni di lavoro civili, abolizione del cottimo, paga sindacale e non ostacoli artificiali al rinnovo dei permessi di soggiorno. Nello stesso giorno, il 25 agosto, la Princes ha rispedito a casa 300 lavoratori stagionali senza alcuna comunicazione preventiva e smentendo l’accordo sindacale di luglio: l’annuncio è stato dato al momento di timbrare il cartellino per «assenza di materia prima». Per inciso, i 300 lavoratori non hanno manifestato. Segno che, commenta amaramente l’avvocato foggiano Claudio Di Martino, davvero gli immigrati «fanno i lavori che noi non facciamo più. Tipo scendere in piazza per i propri diritti».
Un fatto nuovo è l’operazione di polizia che ha portato – in giugno – all’arresto della cupola del clan Sinesi-Francavilla che davanti alla Princes estorceva fin dagli anni ’90 ai camionisti 50 euro a vettura per poter scaricare il loro bisonte dentro la grande fabbrica. Testimonianza del grande interesse della criminalità organizzata per il fiume di oro rosso, forse non l’unico.
Un fatto nuovo è la visita a metà agosto del ministro della giustizia Orlando al Gran Ghetto: il primo politico ad addentrarsi nei vicoli tra le baracche dopo l’ex assessore regionale, Guglielmo Minervini, che purtroppo ci ha lasciato qualche giorno fa, unico a fare, due anni fa, un piano vero per l’ingresso nella legalità dei lavoratori, vero grimaldello per cancellare gli insediamenti abusivi.
Ognuno di questi fatti è una notizia. Tutti insieme, poi, mostrano uno scenario sfaccettato, l’orrore e lo sfruttamento, la spietatezza del sistema di produzione, la piaga del cottimo e del caporalato, la mano pesante della criminalità organizzata su tutta la filiera. Quello che non c’è, su cui bisognerebbe indagare meglio, è la parte invisibile, le associazioni imprenditoriali delle industrie e degli agricoltori, che fanno il prezzo del pomodoro in primavera, ben prima della semina. È il ricatto della grande distribuzione, che impone poi a chi trasforma quantità e prezzi a prescindere, quali che siano stati i costi. Oltre alla penuria di controlli sulla produzione, nei campi e nelle aziende.
Stupisce dunque che due testate autorevoli come Internazionale e l’Espresso abbiano scelto di colorire i loro articoli. Internazionale ha preso come oro colato le dichiarazioni di un caporale “buono” che, nonostante i 150 euro al giorno raccolti in media tra i lavoratori della sua squadra (che pagano per il trasporto, l’acqua e il panino ma ne guadagnano meno di 30 al giorno), pensa che continuare a fare questo lavoro non vale la pena. Credibile? Ancora. I due giornalisti sposano l’ipotesi della Regione, che vuol utilizzare il campo tendato allestito due anni fa presso la tenuta Fortore, sottratta alla mafia, che avrebbe dovuto ospitare i braccianti che avevano un contratto di lavoro, dunque sottratti all’illegalità dei caporali e del Ghetto. Braccianti inesistenti, visto che le aziende non hanno fatto nemmeno la fatica di assoldare una cinquantina di lavoratori in modo legale. Oggi, a fare i “caporali legali”, a mettere in comunicazione domanda e offerta di lavoro, ci sarebbero Hervé e M’baie i due africani che gestiscono quel campo e Casa Sankara, nonostante una scia di contenziosi legali. Scrivono i due giornalisti di Internazionale: «I membri dell’associazione sembrano risoluti. Godono dell’appoggio della regione e hanno molti contatti nell’area, che li potrebbero aiutare a svolgere quella funzione di ponte tra lavoratori e datori di lavoro che è lo scopo con cui hanno fondato la cooperativa”. Internazionale titola: «Braccianti e caporali lavorano per uscire dall’illegalità». I braccianti sicuramente: due anni fa furono in 600 solo al Ghetto a iscriversi alle liste di prenotazione della Regione, quelle lasciate inutilizzate dagli agricoltori. Che i caporali siano dello stesso avviso è più difficile dirlo, a meno che non si candidino a farsi “imprenditori interinali”, continuando a offrire intermediazione lavorativa, oltre che l’illegale cottimo.
L’Espresso, invece, ha inviato Fabrizio Gatti, prestigioso giornalista che riuscì a farsi rinchiudere nel centro di Lampedusa come clandestino, e più volte fece il viaggio dei migranti attraverso il deserto del Sudan. Ma al Gran Ghetto lo aspettava un’insidia: il racconto di un maliano, uno solo, che gli ha mostrato una croce fatta con due assi carbonizzate, secondo la narrazione raccolte due anni fa dopo il rogo della baracca-chiesa data a fuoco per intimidire e minacciare i “trecento” cristiani del Ghetto. Peccato che al Ghetto i cristiani siano molti meno, una decina. E peccato soprattutto che la baracca/chiesa non sia mai esistita. C’era un bar-ristorante, invece, dove anni fa il missionario Arcangelo Maira aveva cominciato a dir messa la domenica alla decina di fedeli stranieri e ai volontari del progetto “Io ci sto”. Messe partecipate, intense: poi il missionario, sapendo di dover lasciare la Capitanata, cercò di far incontrare la piccola comunità con quella della parrocchia più vicina, anche questo un percorso di integrazione che purtroppo non ha funzionato.
Quella croce, invece, fu fatta nel febbraio scorso da Concetta Notarangelo, responsabile del progetto Presidio della Caritas, dopo l’incendio che devastò il Ghetto lasciando all’addiaccio centinaia di persone. Dopo aver portato coperte e generi di prima necessità Concetta raccolse due assi della baracca bar e li legò con i tubi dell’irrigazione dei pomodori, quelli usati con perizia nel Ghetto per fissare i teloni di plastica sui cartoni delle pareti.
Nessuna guerra di religione: tanto che il responsabile della Caritas diocesana, Francesco Catalano, è costretto a smentire l’Espresso: «La notizia pubblicata il 22 agosto dal giornalista Fabrizio Gatti de l’Espresso, è certamente una notizia che fa scalpore, ma non fa altro che gettare fango su gente già pesantemente infangata da pregiudizi, in quanto non corrispondente al vero. In copertina viene mostrata una croce bruciata che, secondo il giornalista, sarebbero i resti di una croce appartenente ad una baracca-chiesa bruciata da alcuni musulmani, che vieterebbero ai cristiani di vivere la propria fede e di esporre i segni religiosi. Dico chiaramente che la notizia è falsa se non fosse per il fatto che quella croce l’abbiamo costruita noi di recente e non due anni fa, con i resti delle baracche bruciate a causa dell’incendio avvenuto lo scorso 15 febbraio». Conclude così: «Mi chiedo il perché di questo “terrorismo dell’informazione”. Un idea però me la sono fatta; dopo l’uccisione avvenuta il 26 luglio di un prete di 84 anni in una chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, un sobborgo di Rouen per mano di due fanatici dell’Isis, fui raggiunto da una telefonata da parte di una giornalista, la quale voleva sapere com’erano i rapporti tra migranti di fede musulmana e quelli di fede cristiana. Io risposi che sono buoni e che non si erano mai registrati episodi di intolleranza. Ho avuto l’impressione che la mia risposta abbia deluso le aspettative della giornalista, che forse avrebbe desiderato che io dichiarassi il contrario per poter poi spendere fiumi di inchiostro su questo tema».