Tutto Giuseppe Conte
Le parole del mondo
Un prezioso volume raccoglie l’opera del poeta ligure. Oltre trent’anni di militanza poetica in difesa di un grande patrimonio di storia, tradizioni e pensieri, e continuamente alla ricerca del senso originale e autentico dell’esistenza
Per parlare dell’opera poetica di Giuseppe Conte, racchiusa in un Oscar (Poesie,1983-2015, Mondadori) pubblicato in occasione del compimento dei suoi 70 anni, è necessario, quasi come premessa, soffermarsi su alcuni temi che stanno a cuore all’autore, quelli del simbolico, dell’epico, del mito. Conte afferma che le Muse sono «correnti di energia vivente che ci richiamano il brivido sacro da cui tutte le arti nascono, lo scandalo, la persistenza del divino nella nostra mente; (il mito) una forma di conoscenza attraverso la quale passa il concetto di anima, di natura, di eroe, di destino, di cosmo», e, di conseguenza, innervare la poesia di tali “visioni” diviene un esercizio vitale, perché in fondo, come dice Carifi, proprio rimitizzare è uno degli scopi della poesia. Da intendersi, ritengo, come il riappropriarsi della sacralità insita un tempo nelle cose, nelle persone, nelle relazioni che la società moderna ha cancellato. Quindi bisogna inoltrarsi verso il senso «originale e autentico dell’esistenza», quell’eterno sguardo che si è via via prima affievolito, quindi distrutto. L’idea mitopoietica non è un ripiegare il discorso su un canone desueto, su un rottame storico e etico, ma una estrema possibilità rigeneratrice. E ancora: non siamo nei meandri di una ricongiunzione vuota, di un ripetere voci lontane, perché, come dice Giorgio Ficara nella illuminante introduzione al volume, «Conte crede che l’obbligo della poesia occidentale sia il continuo trascendimento di sé nel nuovo… La poesia non è dunque un mito acronico né una favoletta cognitiva che si trasmette da un tempo all’altro, ma al contrario soggiace al tempo storico abbagliandolo e chiarendone il senso». Tutto ciò è urgente e non è qualcosa che odora di muffa o di retorica, o di antiche e logore concezioni, al contrario si sposta «indietro, fino alle sue stesse origini, ma rimane bloccata nel nostro tempo, testimone dello spirito del nostro tempo».
Se così è, si comprende l’attenzione e il seguito che Conte ha avuto fin dai suoi inizi, e quale valenza potesse stare nei suoi versi, quale profondità e quali colori si coniugassero nelle sue parole, tanto da far pensare a un poeta dalla voce indispensabile e con una autorevolezza unica. Libro dopo libro Conte ha costruito un mondo ‘altro’ rispetto a quello esistente, dove la natura, gli animali, il paesaggio, le relazioni umane, la ricchezza della parola, la magica cosmologia, il senso della vita e della morte, hanno assunto un significato distinto da quello che la società tecnologica, massificata, distruttrice e alienata, ha portato nelle nostre case. Forse poteva essere solo la speranza di una nuova prospettiva, comunque è parso immediatamente un riservare lo sguardo, l’ascolto, l’intelligenza, l’anima, lo spirito, l’istanza creativa, la scrittura, l’amore; verso la salvaguardia di un sistema-mondo calpestato. Allora possiamo dire che oltre alla valutazione sulla poesia, Conte si erge come l’alfiere di una speciale ed eroica resistenza a una ‘ideologia’ nichilistica, votato come è stato, e come è, alla difesa di un grande patrimonio storico e di relazioni, di tradizioni e pensieri, che è poi tutto ciò che ci muove alla meraviglia, allo stupore, all’emozione.
Intesero l’importanza decisiva di tale linea espressiva e di tale forza etica i diversi poeti che negli anni Settanta si affacciarono sulla scena, da Mussapi a De Angelis, da Carifi a Kemeny, da Copioli a Pontiggia, ma anche due scrittori della rilevanza di Italo Calvino e di Pietro Citati, il primo con un “ampio e memorabile” saggio, il secondo permettendo a Conte di pubblicare la prima raccolta organica, nel 1983, L’Oceano e il Ragazzo, presso Rizzoli. L’autore arrivò a questo libro dopo anni di impegnativi studi critici, sotto l’alto magistero di Anceschi, e con la pubblicazione del saggio La metafora barocca. Erano per lui anni di riflessione sul ruolo della poesia e anche del personale impegno intellettuale, con il relativo moto di ribellione di fronte a «un’Europa isterilita, inaridita, avvelenata, a una cultura analitica (sociologismo, freudismo, strutturalismo, semiotica) che strizzava ogni slancio creativo e rendeva impossibile pensare a nuovi scenari di canto, a una poesia sempre più astratta, intellettuale, ideologica o intimistica, priva di energie cosmiche e di divinità».
Da queste considerazioni teoriche parte il grande tragitto creativo di Giuseppe Conte, a cui rimarrà fedele per tutta la vita, in una disputa continua contro chi ha fatto e fa della poesia un campo senza stupori, con una fedeltà luminosa, assoluta e unica verso la parola poetica.
È difficile dire in modo esauriente di una antologia che comprende sei raccolte e poesie inedite, ripercorrere un itinerario così ricco e copioso, che parla di un in-canto sublime che trascina il lettore in un parco infinito dove piante, fiori, usanze, storie, leggende, nomi, musiche, colori, mari, città, terre aspre e dolci, frutti copiosi e aride arene, dii e demoni, religioni e ossessioni, donne bellissime e amarissime, gioie e dolori, distruzioni e costruzioni, si stagliano nel teatro sconfinato del mondo, dell’universo, della vita. Mille elementi, fatti, persone, parole. E l’inesauribile viaggiare, con la felicità, la curiosità e il desiderio di vedere e conoscere ogni angolo del globo. E tutto questo ampio scenario questa poesia lo fa vivere, vedere, toccare, ammirare o osteggiare. Perché la poesia di Conte ci porta alla totalità delle cose della vita, dell’universo, della storia. E se ne esce frastornati, tremolanti, arricchiti, perfino annichiliti di fronte a un disegno così ampio e sublime. E qui non si può che dare piccoli accenni di un così vasto teatro.
L’Oceano e il Ragazzo (del 1983), nasce sotto l’egida di miti etruschi, aztechi, pellerossa, greci e celtici e «sotto la spinta disperata e totale di una passione di ricominciamento, di un estremismo lirico, di una fede esaltata e totale nella poesia». Parliamo di un libro ‘alternativo’ e ‘antagonista’ (che recupera anche il mirabile L’ultimo aprile bianco, raccolta uscita nel 1979 con la Società di poesia), per i connotati innovativi, la strenua forza del messaggio, il valore magico della visione. Un libro dove il linguaggio alto e ricco di derivazione classica, la complessa trama, la diversificazione dei temi, il rapporto con l’assoluto e la meraviglia del creato, la profondità del pensiero, pongono subito il poeta in una percezione assoluta di ‘ascolto’ e di scrittura. Con l’idea della bellezza che diviene connotato non solo estetico bensì spirituale. Ne è un esempio la poesia L’Oceano e il ragazzo camminano dove riprende una leggenda che racconta di un giovane muto che si inoltra nel mare e giunge negli abissi e lì raccoglie il canto del mare che diverrà infine il suo canto («le acque fanno nascere un sole/ e scende, va a fondo a fondo/ e trova lì Sogni e Parole-/ le prime Parole del Mondo»), che è poi il canto della poesia.
In Le stagioni, 1988, il canto si fa rivelazione continua, delineando storie, fasi della vita, paesaggi attraverso gli elementi naturali (acqua, aria, fuoco), o i personaggi mitici (Venere, Pan, Ermes…). Il tempo dei cicli stagionali e dell’esistenza propria e degli uomini, incrocia il sublime immaginario del poeta, con squarci che attraversano i familiari luoghi liguri, rapinosi nella loro sospesa dimensione: «La neve è caduta anche in riva/ al mare: prima di sera/ le spiagge chinavano bianche/ al lungo confine con le onde:/ neve sulle barche rovesciate/ a secco, sulle ferriere/ abbandonate», con la natura che regola lo sguardo come nel caso della comparsa improvvisa, semplice e stupefacente, delle ginestre, intraviste dall’autostrada: «Le ginestre…/ Sono lì, sregolate/ come fascine di luce/ piovuta e rappresa, come/ covoni rovesciati, spezzati/ favi// Per loro non c’è il tempo dell’attesa».
Ma troviamo pure le lontane distese americane con il travolgente scenario del Rio Grande (il Rio Bravo che va dal Colorado al Nuovo Messico fino al Texas, uno dei più grandi degli Us), che appare al lettore, da quasi sconosciuto e lontano fiume, come un ‘evento’ magico, desolato e indimenticabile allo stesso tempo: «È rosso di pietra tagliata/ da un lungo coltello di alba/ è verde di pini franati/ sul limpido greto, il Rio Grande./ … ci apparve il deserto, delirio/ di un mare senza mare», ma pure scenario che ‘si realizza’ dal mirare creativo del poeta: «Lungo un altopiano, quella linea/ franta e allungata d’ombra/ che sembrava lì disegnata da un eclisse/ parziale, impazzito/ segnava le sponde/ sprofondate del Rio Grande». E batte il ritmo delle meraviglie anche nel suo ruolo di insegnante che non ripiega nella noia della ripetitività del gesto e in linea con la sua visione tellurica e visionaria, sapienziale e colma di fuoco («Dopo passato anche il fuoco, ci sarà/ soltanto la verità della luce»), sapendo che è indispensabile instillare emozioni e passioni nei ragazzi, si affida a Ermes a cui chiede di farli stupire, di rapirli e portarli nel suo carro dorato: «Entra nell’aula/ con i sandali alati, con i tuoi/ sorrisi acuti come smorfie, incantali/ tu i ragazzi, forse ti aspettano».
C’è in Conte l’idea suprema e nobile della superiorità della vita sulla povertà del mondo, perché proprio il poeta «ha in sé/ la crudele pietà di ogni giorno». E come canta l’acqua che «è eterna e non ha destino», così sa che è infinito il dialogo con lo stesso destino, che mai soggiace alle nostre esigenze, ma neppure è da pensare come corpo nemico. Dialogo infinito con la vita, ma pure con la morte, come quando parla al padre defunto, in una bellissima poesia titolata Commiato, che inizia con la struggente domanda: «In quale stagione ci rivedremo,/ padre?», sì, è il saluto al padre che ha terminato il suo ciclo di vita e lascia appeso il suo vestiario («la tua sciarpa da ufficiale di picchetto…») e il suo sorriso, ma dove il poeta, fedele al proprio pensiero sorgivo e luminoso, non ha solo il pianto, ma lo slancio del ritrovarsi, la gioia postuma e il rifiorire delle stagioni: «Ma ci ritroveremo dopo, dopo/ le stagioni, dove l’amore e il sogno/ fanno nascere ancora/ come un figlio da un padre/ da una Montagna un fiume./ Su zattere di luce scenderemo/ insieme vedremo rive…/ Viaggeremo oltre ciò che fiorisce e disfiora/ oltre il giorno e la sera/ la primavera e l’autunno».
Conte ha sempre ricordato che è necessario mantenere un fuoco adolescenziale, quella passione giovanile che contiene una vitalità forte che sconfina con un senso quasi “divino”, o di onnipotenza, e che porta a «ri-scoprire il mondo e a rimettere in gioco il proprio destino», una energia che è portata a scemare ma che sarebbe bene conservare, seppure temperata dalla necessaria maturità, quel filo della vita che mai si deve spezzare e che egli in Dialogo del poeta e del messaggero (raccolta del 1992) ripropone, dove per la prima volta parla delle proprie vicende, dal guardare «con una gioia sgomenta quella bambina/ – la figlia dei burattinai» all’amico Pucci Lavezzari con la sua fine a diciannove anni, al caro natio Porto Maurizio con «mia madre alla sua finestra/ con il dolore fragile che le resta/ vicino come un compagno muto»; in un confrontarsi con la questione della «sofferenza e del dolore», seppure in Conte vi sia costantemente il rapporto gioia-dolore, perché l’una parte contempera e accompagna l’altra e mai l’una deve sconfiggere l’altra. Libro centrale questo anche per la parte dedicata alla Democrazia, nel segno dell’amato Whitman con l’invocazione che sia «fatta di amore e di alberi, di desideri, di gioie,/ di fiumi, di compagni, di viaggi», pensando che la poesia possa essere «la forma di energia spirituale che può rigenerarci individualmente e collettivamente… e far nascere e cadere gli imperi», una proposta enorme eppure “umile” che parla di una possibile alternativa convivenza, al nostro vivere sociale.
Tema ripreso anche in Canti d’Oriente e d’Occidente, dove «Giuseppe servitore della Luce» scrive anche poemi ispirati a poeti persiani, arabi e turchi evidenziando una cultura universale e una appassionata vicinanza al mondo arabo, ma soprattutto di questa raccolta vogliamo ricordare il disperato canto (Il canto irlandese) dedicato al patriota irlandese Bobby Sands che morì in carcere facendo lo sciopero della fame, seguito da 11 compagni, per il mancato riconoscimento dello status di prigioniero politico da parte del governo inglese, un atto di coraggio estremo che Conte ammira e vive quasi come fosse lui il protagonista della vicenda, con uno scorrere forte e dolce allo stesso tempo, come nell’emozionante finale: «E marzo è passato e tornato,/ fuori la primavera ha ancora/ fronti di fiori viola e vermigli/ nuvole che volano nel cielo/ come uccelli di passo verso la foce/ tiepida di un fiume. Il ragazzo/ dal carcere di Maze, ricordatelo!/ Alto con le allodole della luce».
Ferite e rifioriture, l’ultima raccolta, del 2006, è il libro che si inoltra sul lato più estremo del vivere, il poeta sembra fare un po’ i conti con il tempo che fugge, come quando dice: «Come è corto Febbraio/ come è corta la vita/ per chi ne ama l’essenza/ incessabile, infinita» seppure conservi il margine di difesa e dica della giovinezza: «Credevi di andartene, ma io/ ti ospito troppo bene in un cuore/ feroce e ragazzo, che niente ha domato,/ che conosce troppo bene la tua carezza/ e come rinasci fenice dalle tue ceneri./ Resta qui, che io ti veneri». Ma pure intenda che la stagione è quella più fredda, pur con un anelito di speranza: «Inverno, solo quello ormai ci aspetta,/ ghiacci deserti, giorni/ corti come i tuoi scatti di orgoglio/ lividi come un rifiuto, nudi come coltelli?/ Io che ti ho dato tutte le stagioni/ muoio se non vedo un nuovo germoglio».
E c’è anche qui, l’immergersi nella natura, nella bellezza del paesaggio, con versi che lasciano oltremodo ammirati: «Verrà così la prima primavera/ del secolo. Già si vede/ sul mare bianco-dorato tra gli scogli/ del molo, nel nuovo pallore/ del cielo, nel vento che si mescola/ alla luce e ad un tepore/ di polline e di miele./ Verrà, lo dicono già/ gli alberi fioriti all’improvviso/ negli orti e nei giardini della Liguria/ astrali e circoscritti/ verticali e crollanti/ i mandorli che ricamano/ l’aria come aghi di brina».
Gli inediti sono dedicati al mare, che è poi il centro gravitazionale del suo vivere, tra l’acqua familiare della Liguria, fino al mare del Bengala o a quello vicino di Nizza, dove ha vissuto per vari anni, o di altra parte del mondo, sia New York o l’India, perché Conte è poeta che ama il viaggio specie se coniugato al mare, e mai si è fermato, quasi vivendo un esodo continuo o un esilio forzato, perché solo nella ricerca di un luogo, o di un mare, c’è la percezione del tutto, che è ricerca geografica sicuramente, ma soprattutto sapienziale, in un andare ‘folle’, dolce e amaro. Il mare (in una commistione profonda con l’amore), che fa fiorire e rifiorire incontri, dolcezze, addii, e diviene la dimora e la bara, il fuoco e la speranza, il timore e l’assenza, l’inizio e la fine: «Non finirò di scrivere sul mare./ Perché il mare è le Sirene la cui voce/ calamitante d’amore oscura/ voglio ascoltare senza paura/ io che non ho dove tornare/ …/ Perché il mare…/…/ è sentirsi vicino/ all’inizio di ogni lacerazione/ al primo scoccare del tempo».