Raoul Precht
Periscopio (globale)

La tristezza leggera

Ancora a proposito di Don Chisciotte (quattrocento anni dopo Cervantes) e di quella che Calvino chiamava "melanconia", ossia una “comicità senza corpo"

Per Cesare Segre (Le strutture e il tempo), Don Chisciotte è il prototipo del romanzo-saggio. In questo senso precorre proprio il genere letterario che attualmente mi sembra più fertile e vitale (e che forse lo è sempre stato).

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“Costruzione alla Borges”, secondo un’altra definizione di Segre: e in effetti, se si mette questa definizione in relazione con la famosa frase borgesiana (in Otras inquisiciones), secondo cui la vera opera d’arte crea i propri precursori, la possiamo applicare al concetto di autorialità che innerva il romanzo. Scrive Segre: “Abbiamo uno scrittore (Cervantes) che inventa un personaggio (Don Chisciotte) che inventa l’autore (Cide Hamete) che servirà come fonte all’opera dello scrittore (Cervantes)”, con l’immenso vantaggio accessorio – aggiungo io – che, essendo Cide Hamete Benengeli un mago e un miscredente, e dunque un personaggio poco degno di fiducia, gli si potranno attribuire i racconti più incredibili.

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Nella seconda parte del romanzo, l’ascesa sociale farà di Don Chisciotte lo zimbello della società e il tono si volge da comico a tragico, come si addice al nuovo pubblico aristocratico davanti al quale si esibisce.

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Scrive Javier Cercas ne L’impostore: “…uno degli elementi che distinguono la prima parte del Chisciotte dalla seconda è che nella prima parte Don Chisciotte s’inventa i prodigi cavallereschi che gli accadono, scambia mulini per giganti e locande per castelli, mentre nella seconda parte i prodigi accadono davvero, o così crede Don Chisciotte, che fa innamorare donzelle, assiste a naufragi, sente parlare teste incantate e sfida a singolar tenzone altri cavalieri erranti… (…) Alonso Quijano non fingeva quando interpretava Don Chisciotte; lui era Don Chisciotte: aveva incorporato in sé il personaggio di Don Chisciotte quanto l’attore che crede di essere il personaggio che interpreta, cosicché nessuno poteva convincerlo a riconoscere di non essere Don Chisciotte ma Alonso Quijano.”

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Imitazioni e stravolgimenti: lo spavento di Cervantes quando, impegnato nella stesura della seconda parte del Chisciotte, viene a sapere dell’imitazione di Avellaneda e della concorrenza spietata che questi gli stava facendo. A quel punto Don Chisciotte è costretto a cambiare i suoi piani e a evitare le giostre di Saragozza, dove era appena apparso il falso Chisciotte, e Cervantes dietro (o sopra) di lui a sua volta modifica l’impianto e lo svolgimento dell’opera per difendere la stessa (la parte che stava scrivendo e quella ultimata un decennio prima) da interpretazioni fuorvianti. Senza l’inserimento scorretto, nel 1614, di Avellaneda, che lo batte sul tempo, molto probabilmente non avremmo mai avuto la seconda parte; la prima si chiude infatti in modo tale (si vedano gli elogi funebri di Chisciotte, Sancio e Dulcinea) da non far minimamente pensare alla possibilità di una prosecuzione o da relegarla tutt’al più in un novero di possibilità remote.

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L’episodio di Sancio governatore dell’isola di Barataria, con la lunga separazione da Don Chisciotte che ne deriva, serve anche a “lanciare” il personaggio dello scudiero come eroe a sé stante, eco burlesca, ma non sprovvista di una sua solida e terragna saggezza – che permette a Sancio di mimare perfino un certo buongoverno -, di un eroe già votato al ridicolo, con la sua pazzia altamente specializzata.

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don chisciotte picassoLo iato fra il mondo com’è e il modo in cui lo percepisce l’eroe è al centro anche della riflessione di Michel Foucault (Les mots et les choses) sulla trasformazione epistemologica a cavallo fra Cinque e Seicento, e sul fatto che un eroe medievale come Don Chisciotte non è più sincrono rispetto all’epoca in cui vive e alla nascente mentalità rinascimentale. Don Chisciotte è semmai un ulteriore segno che risponde, in una commedia degli equivoci, agli altri segni creati dalla letteratura di tutti i tempi.

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Già Cartesio, nel Discorso sul metodo, aveva pronunciato un severo monito nei confronti degli umanisti, in quanto soggetti a “cadere nelle stravaganze dei paladini dei nostri romanzi e a concepire progetti superiori alle loro forze”: la conoscenza che viene dalla semplice lettura non si basa infatti né sui sensi, né sulla ragione, ma solo sulla fiducia attribuita all’autore. E quale fiducia potrà mai attribuirsi a un autore che nel prologo fa una lunga tirata per negare perfino il concetto di paternità letteraria e si autodefinisce, più che padre, patrigno?

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L’ardita ipotesi di Kafka: e se don Chisciotte non fosse che una proiezione di Sancio? Nella brevissima prosa (appena due frasi, proprio come il famoso ma molto più lungo racconto Nella galleria) intitolata Die Wahrheit über Sancho Pansa, Kafka immagina che Sancio sia riuscito a eludere il diavolo, al quale darà poi il nome di Don Quixote, a seguito della lettura dei romanzi cavallereschi. Il diavolo compie una serie di azioni che però si rivelano innocue e Sancio lo accompagna nelle sue tribolazioni non solo per senso di responsabilità, ma anche per procurarsi un sano divertimento.

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Scopiazzamenti e rifacimenti: già nel 1605, anno dell’uscita della prima parte del Chisciotte, ne vengono pubblicate due edizioni pirata, da cui Cervantes, ovviamente, non ricava nulla. Poi arriva Avellaneda, e Cervantes, che nei dieci anni che intercorrono fra il 1605 e il 1615 si era dedicato ad altro, capisce che deve mettersi a tavolino, risistemare e completare i frammenti che era andato comunque scrivendo e, visto che c’è, tagliare l’erba sotto i piedi al rivale. Come? Spostando l’asse della narrazione e avvalendosi di un espediente, facendo sì cioè che nella seconda parte gli altri personaggi, lettori della prima, sapessero della follia di Don Chisciotte e a essa adeguassero il loro comportamento. Al di là del fatto dunque di andare a Barcellona anziché a Saragozza, di escludere quasi completamente le narrazioni intercalate della prima parte, di prendere in prestito un personaggio di Avellaneda e di fargli dichiarare la “verità” sulla falsità dell’opera del suo rivale, di precisare finalmente il vero nome del cavaliere (Alonso Quijano, non certo Martín Quijada come dice il presuntuoso rivale) e di far morire alla fine il suo protagonista, anziché farlo rinchiudere in manicomio come previsto da Avellaneda (sventando in tal modo sul nascere la possibilità d’una terza parte apocrifa), la grande novità di questo secondo Chisciotte sta nel colpo di genio di Cervantes di modificare la ricezione del personaggio da parte di coloro che lo circondano, i quali, anziché sorprendersi delle sue pazzie, le assecondano e le promuovono.

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Ma chi era mai quest’Avellaneda? Non si sa; o meglio si sa (grazie alle spie linguistiche disseminate nell’opera) che era un aragonese, almeno d’origine, che era molto devoto dell’ordine dei dominicani, che doveva far parte del circolo di amici di Lope de Vega (con cui Cervantes non aveva mai fraternizzato) e che molto probabilmente viveva a Toledo, dove non a caso Lope si rifugiò per un certo tempo con l’amante, un’attrice della Mancia, quando fuggì dalla moglie. Date le differenze stilistiche, si presume anche che chi ha scritto il prologo all’opera di Avellaneda sia un secondo autore, con molta probabilità lo stesso Lope – e fu non a caso il prologo, più ancora del resto del libro, a far andare Cervantes su tutte le furie. Ora, l’unico aragonese fra i possibili sospetti è Jerónimo de Pasamonte, che a Cervantes aveva ispirato il personaggio di Ginés de Pasamonte, un galeotto, nella prima parte del romanzo; inoltre, nel Chisciotte di Avellaneda si fanno pesanti allusioni alla disabilità di Cervantes, la mano sinistra ferita e storpiata da un soldato musulmano durante la battaglia di Lepanto, e guarda caso Jerónimo aveva partecipato alla stessa battaglia, era stato testimone oculare delle traversie di Cervantes e aveva poi scritto un’autobiografia in cui si gloriava delle imprese eroiche compiute dal collega. Sembra però che scrivesse malissimo, e invece il Chisciotte di Avellaneda sotto il profilo stilistico non è per nulla disprezzabile. Secondo un’altra ipotesi, il romanzo sarebbe stato scritto a più mani da letterati della cerchia di Lope. Terza ipotesi: si è parlato di Cristóbal Suárez de Figueroa, che già aveva scritto peste e corna di Cervantes, essendone ampiamente ricambiato nella seconda parte del Chisciotte, dove Cervantes lo fa passare per uno scopiazzatore di autori italiani, più che traduttore/traditore addirittura traduttore/plagiario. Nell’ambiente letterario dell’epoca, insomma, ci si voleva bene. Tutto il contrario di oggi.

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A proposito di economia di mezzi, Italo Calvino sottolinea l’invidiabile concisione nella scrittura cervantina: “La scena di Don Quijote che infilza con la lancia una pala del mulino a vento e viene trasportato in aria occupa poche righe del romanzo di Cervantes; si può dire che in essa l’autore non ha investito che in minima misura le risorse della sua scrittura; ciononostante essa resta uno dei luoghi più famosi della letteratura di tutti i tempi.”

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Ancora Calvino a proposito non solo di Cervantes, ma anche dell’altro grande festeggiato di quest’anno, Shakespeare: “Come la melanconia è la tristezza diventata leggera, così lo humour è il comico che ha perso la pesantezza corporea (quella dimensione della carnalità umana che pur fa grandi Boccaccio e Rabelais) e mette in dubbio l’io e il mondo e tutta la rete di relazioni che li costituiscono.”

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E per concludere in bellezza: scrive Flaubert in una lettera a Louise Colet del 22 novembre 1852 : «Quel nains que les autres [livres] à côté!»

(2. fine. Clicca qui per leggere il capitolo precedente)

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