Notizie dal Festival della Valle d’Itria /2
Il mago di Paisiello
A Martina Franca onorato il bicentenario dell’illustre compositore tarantino con il recupero di un inedito in tempi moderni: “La grotta di Trofonio”, commedia per musica con versi di Giuseppe Palomba, da un testo dell’abate Giovan Battista Casti
Per celebrare il bicentenario di Giovanni Paisiello (1740-1816), il Festival della Valle d’Itria (vedi anche https://www.succedeoggi.it/wordpress2016/08/francesca-ritrovata/) ha allestito dell’illustre compositore tarantino La grotta di Trofonio (1785), commedia per musica con versi di Giuseppe Palomba, da un testo dell’abate Giovan Battista Casti. In prima rappresentazione nei tempi moderni, il recupero è stato coprodotto con il Teatro di San Carlo in Napoli, grazie al lavoro di edizione critica sviluppato dalla musicologa Luisa Cosi. Riprendendo una leggenda della Grecia antica, la vicenda è centrata sulla figura del filosofo e mago Trofonio, e del suo antro, entrando nel quale, e bevendone le acque, le menti e i caratteri degli umani si trasformano. Da qui il libretto di Palomba intesse una serie di scambi, che scompigliano gli amori di due giovani sorelle, e dei rispettivi spasimanti, con equivoci e incroci imprevedibili, tipici dell’opera buffa, e lieto fine con tarallucci e vino per tutti. Una divertente presa in giro, negli intenti di Paisiello e Palomba, della dabbenaggine di quanti abboccavano alle lusinghe dei vari maghi Otelma o maghi di Avella di quei tempi; niente di nuovo sotto il sole.
Trattandosi di un genio come Paisiello, superfluo riferire che la partitura possiede tutti i crismi di un lavoro pregevole, abilmente strutturato sulle regole del genere in questione, e scorre quindi sul velluto del divertimento assicurato dai collaudati meccanismi dell’opera comica. Va però osservato che questa Grotta di Trofonio non esibisce pagine di rilevante interesse, e non si può affiancare a ben altri capolavori dello stesso Paisiello; tanto che l’opera, dopo aver circolato all’epoca sua, non ha conosciuto duratura fortuna esecutiva. Si potevano forse privilegiare altre scelte, ma probabilmente il Festival ha preferito onorare il bicentenario con il recupero di un inedito in tempi moderni, per attribuirsi comunque uno speciale ruolo commemorativo.
Assodato che si tratta di un lavoro minore, va sottolineato che gli aspetti migliori dell’allestimento martinese sono stati due: la buona qualità della compagnia di canto, e la scenografia elegante ideata da Dario Gessati. Il cast vocale era capitanato dal basso Roberto Scandiuzzi, che nel ruolo del titolo ha offerto una prova impeccabile, anche dal lato scenico. Tutti meritano la citazione: dalle fanciulle Dori ed Eufelia, Benedetta Mazzucato e Angela Nisi, agli spasimanti Artemidoro e don Gasperone, Matteo Mezzaro e Domenico Colaianni, al padre delle fanciulle don Piastrone, Giorgio Cadauro, alla locandiera Rubinetta, Caterina Di Tonno, alla ballerina astuta Madama Bartolina, Daniela Mazzucato. Dario Gessati, dal canto suo, ha disegnato una scenografia semplice, funzionale, garbata, coadiuvata dal disegno luci di Camilla Piccioni e dai costumi di Gianluca Falaschi. In sintesi, una serie di libroni giganti adagiati al pavimento, con grandi pagine che si sollevano e che i personaggi attraversano a mo’ di siparietto, pagine raffiguranti scene arcaiche e caratteristiche, come appunto l’ingresso della grotta di Trofonio.
L’Orchestra Internazionale d’Italia ha avuto alla guida il direttore Giuseppe Grazioli, del quale non si può tacere che ha concertato in modo incolore la pur colorita partitura, nel senso che si è limitato a battere a due braccia, solfeggiando dall’inizio alla fine senza valorizzare né musica né orchestra. Il pubblico ha accolto con aperto successo la regia di Alfredo Antoniozzi, di solito più noto e apprezzato come baritono. Ma è stata una regia dominata dall’horror vacui che, senza rendersi conto che già la musica di Paisiello possiede in sé tutto lo spirito adatto, si è spinta a realizzare oltre il lecito una sequela di gag e di piccole trovate, spesso sciocche e discutibili, in un effetto rutilante di accumulo, teso soprattutto a strappare il facile applauso.
Il cartellone del Festival ha proposto anche uno spettacolo di musica barocca, Baccanali, festa teatrale del 1695 composta da Agostino Steffàni su libretto di Ortensio Mauro, sulla base dell’edizione critica di Cinthia Pinheiro Alireti. Anche qui una prima rappresentazione moderna, ben concertata e diretta da Antonio Greco, sul podio dei dieci elementi dell’Ensemble “Cremona antiqua”. Anche se è lecito supporre che, alla sua epoca, una partitura del genere fosse eseguita con ben altro organico e impegno realizzativo, nel suggestivo Chiostro di San Domenico si è assistito a una produzione raffinata, con regia di Cecilia Ligorio, su scene di Alessia Colosso, costumi di Manuel Pedretti, disegno luci di Marco Giusti, e con essenziali movimenti coreografici di Daisy Ransom Phillips, realizzati da lei stessa e Yoseba Yerro Izaguirre. Tutte giovanissime le voci, alcune istruite nella locale Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti”. Voci tuttavia in gran parte ancora poco timbrate e bisognose di studio, per cui ricorderemo soltanto quelle convincenti di Atlante, Nicolò Domini, Ergasto, Yasushi Watanabe, Aminta, Elena Caccamo, Celia, Vittoria Manganello, la quale dovrebbe però moderare qualche eccesso. Anche qui, cordiale successo.