La voce del poeta: Silvio Ramat
Il doppio mestiere
Razionalità equilibrata nell’esercitare il mestiere di critico, libertà giudiziosa nell’espressione poetica. Due tendenze che non devono ostacolarsi ma sostenersi producendo così un’energia speciale. È un’arte che l’autore di “Ellis Island” sa ben praticare…
La figura di Silvio Ramat è una delle più autorevoli della poesia italiana che ha all’attivo un congruo numero di sillogi, pubblicate dai più prestigiosi editori e raccolte nel 2006 nel volume Tutte le poesie 1958-2005, edito da Interlinea. Alla sua attività di poeta, Ramat affianca quella di studioso della letteratura italiana, con un occhio di riguardo per la produzione novecentesca. In questo contesto ci limitiamo a ricordare il volume più recente di versi che si intitola Elis Island. Poesie da un esilio (140 pagine, 15 euro), pubblicato nel 2015 negli Oscar Mondadori. Si tratta di un singolare dialogo epistolare che il poeta intrattiene da una casa di cura con Elisabetta, un’amica che gli risponde in prosa.
La sua poesia, soprattutto dopo la pubblicazione di quelli che lei definisce racconti in versi Mia madre un secolo e Banchi di prova, editi da Marsilio rispettivamente nel 2002 e nel 2011, ha recuperato una dimensione memoriale, narrativamente articolata, cadenzata su quello che Luigi Baldacci ha definito un «endecasillabo che si nasconde nella sua stessa povertà».
Il passaggio della mia poesia, reiterato anche se non per sempre, dalla dimensione/intonazione lirica a una più discorsiva e sospinta ai limiti del narrato ha i suoi primi documenti intorno al 1990, con una sequenza intitolata Via Aurelio Saffi 3. Non escludo che sia stata la mia passione per il romanzo (intendo il romanzo-romanzo, quello che tocca l’apice nel XIX secolo, tra Stendhal e Dickens: un genere nel quale non oso cimentarmi, causa una mia congenita insufficienza respiratoria) a indurmi a scrivere basso e piano, di cose minime e concrete, attinte al mio universo familiare. A rintracciarle e rievocarle debitamente non ho trovato ritmo più efficace di un endecasillabo spesso povero e pedestre: quello a cui si riferiva Luigi Baldacci, mio protorecensore nel remotissimo 1960, quando, ancora studente universitario, esordivo con Le feste di una città, poemetto lirico quant’altri mai.
Come riesce a coniugare la sua attività di critico con quella di poeta?
Non è la prima volta che mi giunge il quesito; rispondo come sempre col testimoniare che il “doppio mestiere” produrrebbe un disastro qualora la razionalità equilibrata che di norma guida l’esercizio critico frenasse o raggelasse la libertà sia pur giudiziosa del poeta. Ma il “doppio mestiere” può invece fornire al critico quelle energie “speciali” che la pratica del poeta affina consentendogli, ad esempio, di penetrare il più a fondo possibile i segreti del testo, di rischiararne i fondali, le radici. È giocoforza che nella mia pluridecennale esperienza di cattedra, espletata per la maggior parte all’università di Padova, io abbia cercato di far (pre)valere in me questo secondo tipo di intreccio, ostacolando poeta e critico nei loro ipotetici diverbii e inducendoli semmai a sostenersi l’un l’altro.
In esergo alla raccolta La dirimpettaia e altri affanni (Mondadori, 2013) ha inserito un distico un po’ provocatorio, che sembra prendere le distanze rispetto alla balbuzie poetica che imperversa, soprattutto sui blog: «Non scrivereste mai come io scrivo? / Ma siete a metà corsa, e io all’arrivo». A chi erano rivolti quei versi?
Rileggendo La dirimpettaia ormai in bozze, mi sono immaginato che qualcuno tra i (pochi) lettori del libro potesse commentare: «Beh, non c’è male; ma è tutto così chiaro, così risolto… Una poesia siffatta potrebbe mai rappresentare la nostra epoca?». E allora, all’ipotetica obiezione, ho replicato – sulla soglia dell’opera – con un distico abbastanza orgoglioso, appellandomi anche ai “diritti dell’età”, al fatto che il trovarmi non lontanissimo dall’ultimo traguardo mi permetteva di prendere le distanze da molte posizioni e, come suggerisce la domanda, anche da ogni “balbuzie poetica”.
Per molti anni lei ha insegnato letteratura italiana contemporanea all’università di Padova e da poco è andato in pensione. Prova nostalgia per l’insegnamento o, al contrario, è stata per lei una sorta di liberazione?
No, nessuna liberazione da vincoli eccessivi. La nostalgia sussiste, eccome! Ho prorogato di un triennio l’effettivo abbandono, la “cessazione dal servizio attivo” come la chiamano, continuando a tenere gratuitamente i miei corsi, (quasi) come se niente fosse. Certo, il declassamento, da una ventina d’anni a questa parte, provocato da pessime riforme e da malinteso spirito di concorrenza fra i varii atenei, è innegabile; e non ne hanno colpa gli studenti. Ma nulla mi ha dato in vita mia gratificazione come l’insegnamento, e pazienza se non ho saputo creare sulle mie orme una “scuola” come han fatto altri colleghi forse più capaci e indubbiamente più “baroni” di me.
Lei ha conosciuto e frequentato molte figure di rilevo della nostra poesia novecentesca. Ce n’è qualcuna che ha contato in maniera particolare per lei e che vuole ricordare?
Davvero non saprei scegliere. La fortuna di nascere fiorentino, di aver vissuto fino ai miei quarant’anni in una città nella quale uscendo di casa potevi incontrare Betocchi o Luzi, Macrì o Gatto, Bigongiari o Bilenchi, Bonsanti o Parronchi… Un privilegio irripetibile. In quell’àmbito ho avuto e frequentato altri maestri, e nella cerchia annovero anche i miei professori dell’università (Longhi e Migliorini su tutti). Meno potrei dire di aver coltivato frutto altre amicizie pur importanti e solenni, di cui ho goduto, come quelle di Montale o di Solmi. Forse il divario anagrafico mi comportava un di più di comprensibile timidezza nel rapporto con loro. E c’è poi una città, Milano, che ricordo con emozione: quella di Sereni e di Fortini, di Giudici e dei poeti della “terza generazione”, da Cattafi a Erba e via via fino a Raboni… Tornando tra le mura di Firenze, dovessi far emergere un nome sopra tutti, quel nome sarebbe Mario Luzi: non tanto il Luzi da Nel magma in avanti, piuttosto il poeta di Primizie del deserto e di Onore del vero, le raccolte su cui mi formai un’idea, direi un’idea “amorosa”, della poesia luziana, durata in me fino alla morte del poeta e oltre quella mesta data.
Ci può parlare della sua ultima raccolta poetica, intitolata Elis Island, definita in quarta di copertina «un raffinatissimo romanzo epistolare»?
Più che di “romanzo”, parlerei di “poema” epistolare: nel senso che la parte in versi (la mia: sul passo degli endecasillabi poveri di cui alla prima risposta) ha proprio l’aria di uniformarsi a un piccolo epos del personaggio, che scrive in prima persona a un’amica (Elisabetta Graziosi: la Elis del titolo) da un luogo strano e vago, sperando che lei (in prosa) gli risponda. Definirei “poetica” l’invenzione della cornice, esiliato l’io in un edificio asettico e silenzioso, unico ospite, relegato per trascorrervi la convalescenza da non si sa quale malattia. La drammaticità la provocano l’isolamento, la totale mancanza di contatti (salvo quelli con Elis, che abita tra Bologna e la campagna bolognese), di notizie e di occupazioni. Così nel vuoto quotidiano sine die lavora il ricordo, poeticamente, e la memoria governa tanto le missive di lui che le responsive di lei. L’uscita da quella condizione si darà inattesa e fortuita.
A cosa sta lavorando attualmente?
L’unico “lavoro” (scadenza di consegna a Mondadori il 30 settembre 2016) è la curatela di un foltissimo epistolario di Giuseppe Ungaretti: 376 lettere ch’egli inviò tra il 1966 e il 1969 a Bruna Bianco, una giovane trasferitasi nel 1956 con la famiglia dalle Langhe a San Paolo del Brasile. Lettere innanzitutto d’amore ma gremite anche di riferimenti innumerevoli a persone e accadimenti lungo l’arco di più che mezzo secolo. Non mi è bastato a completare le ricerche e i commenti indispensabili alla costruzione del volume.
In una lirica intitolata Poeti del ’39 lei cita alcuni autori coetanei. Quali ritiene siano attualmente le voci più rappresentative della poesia italiana?
Quella poesia è una leggera prova d’inventario. Non tutti i poeti che cito, miei coetanei, meritano il briciolo d’immortalità a cui ciascuno di noi aspira. Preferisco dire che delle penultime o terz’ultime leve ho molto ammirato le partiture classiche di Fernando Bandini e la perizia non solo tecnica del Raboni sonettista. L’ultimo dei grandi viventi mi sembra Franco Loi, e lo affermo nell’atto di proclamarmi incompetente nell’area della poesia dialettale. È che nella musica di Loi percepisco un’energia di trascinamento che da un pezzo non riscontro in nessun altro.
Piombo e piuma
(inedito)
È vero, stanno tutti inerpicandosi
lungo lo stesso arido sentiero
più tortuoso anno dopo anno,
un’identica sete li consuma
e un solo cielo, opaco, li sovrasta.
Ma in ciascuno di loro c’è qualcosa
che lo distingue dagli altri: una lettera.
La custodisce in tasca o nella blusa.
Potrebbe forse mutargli la vita.
Da chi l’ebbe in dote? Via via che ascende
la sua memoria si fa più sbiadita.
Era un messaggio d’amore? una mappa
per orientarsi appena giunto in vetta?
un vademecum per tappe venture?
Non è ancora il momento di frugarsi
in tasca o nella blusa. Ma qualcosa
si è mosso, se a qualcuno ora la lettera
pesa come di piombo, e ad altri è piuma.
Arcane strade sceglie la Fortuna.
Silvio Ramat
20 ottobre 2015