Cartolina dal Portogallo
Il cielo sopra Lisbona
Tra colori, profumi e malinconie diffuse, l'estate è il tempo in cui la metropoli portoghese non pare affacciata sull'Atlantico, ma diventa mediterranea
È davvero strano, ma d’estate Lisbona diviene in tutto e per tutto una città mediterranea. Il segno inconfondibile ne è la trasmutazione del cielo: da duro, compatto e tagliente gioiello d’acciaio azzurro, esso diventa una morbida massa pastosa e nebbiosa intarsiata di un’occulta anima d’oro. Azzurrognolo, non più azzurro! È il nostro cielo questo. Quello che d’estate fluttua sulle rive esalanti il respiro denso dell’antico, placido e salato mare greco, incerto circa i confini tra cielo e terra. Quello che grava sovrano ed inesorabile sulle pianure assolate e sui colli di paglia e terra rossa, schiacciandone al suolo ogni respiro e movimento. È l’antichissimo ed imperioso cielo greco e romano, questo. Quello che Nietzsche agognava nelle sue fantasie di meriggi fauneschi.
La trasmutazione non è cosa da poco. Il dimesso ma febbrile delirio atlantico dell’ultima sponda d’Europa si placa ora e rifluisce. Ritorna al così vetusto e statico mare che le si stende alle spalle. Rifluendo, sfugge alla propria identità inquieta e si addormenta nelle desertiche distese ispaniche per poi scivolare esausto nel corpo del liquido progenitore. Odisseo abbandona Olisipon e ritorna sui suoi passi, cercando nuovamente le tracce del lento sangue di antiche madri e spose in eterna attesa. L’epos di Camões perde le sue dinamiche vesti storiche e ritrova il mito progenitore, quello eterno. Adamastor è ora di nuovo un figlio di greci dèi e di greco mare.
Tutta presso Oriente è ora Lisbona, mentre il cielo olimpico la signoreggia e possiede. Là ad Oriente sorge ancora il così atlantico Parque das Nações, con le sue due alte ed aguzze vele impertinenti di Calatrava, simili a cappelli frigi. Intanto la grande valva aperta dell’Underground vomita incessante masse festanti dirette verso il fiume, mentre sopra di esse infiniti intarsi architettonici risplendono ora sotto il cielo immobile. Risplendono per un vero portento, come farebbero sottilissime lamine di opaca e sorda pietra se il sole di colpo vi esplodesse dentro. Fulgore incommensurabile, infinite volte reiterato e così esteso a perdita d’occhio da ogni lato sotto il tallone inesorabile del cielo. Diffusa molteplicità sotto l’Uno.
È l’intero armamentario dei deliri metafisici neoplatonici quello che, con il cielo mediterraneo, si è ora installato su Lisbona. È un Indipendence Day del Mito. Il cielo sopra Lisbona ha adesso un ben più emblematico significato che non il cielo sopra Berlino. E così, paterno, esso accompagna le masse sciamanti oltre l’immensa Avenida Dom João II verso il centro commerciale Vasco da Gama. Lì, una volta sotto le falcate di ferro color avorio, basta sedersi su una panchina di sbieco rispetto al parallelo di queste plaghe per cogliere subito la simbologia che, con l’architettura, ha preso possesso dei luoghi.
Da un lato, a nord, immediatamente sotto lo splendente Uno, infiniti veli di pulviscolo d’oro avanzano sospinti dalle lamine di pietra splendente. Dall’altro lato, a sud, ad essi risponde l’azzurro ormai franco del fiume fattosi foce. Basta fare qualche passo in quella direzione, seguendo sempre le masse della domenica, per assistere allo stupefacente scivolare silenzioso di ombre nere sul pelo dell’acqua. Stupore! Non squali, ma lucidissimi ovoidi immacolati Doppelmayr: – teleferica teutonico-alpina trasferita sull’ormai azzurro Tejo. Anch’esso non più uggioso e verde-limaccioso come nell’atlantico inverno.
Le folle ora ondeggiano, avanzando e rifluendo, come l’acqua lungo la riva, sfaccendate e multicolori, così come multirazziali. Sotto il sole sterminato l’interminabile ponte Vasco da Gama si snoda sonnolento serpeggiando sull’azzurro verso le saline di Samouco e Alcochete. Intanto altrove, durante uno di questi crepuscoli, Lisbona era divenuta città aperta. Brulicante quella sera stessa di concerti, caffè e ristoranti da terrazza. E irto su camminamenti sbilenchi di antichi moli uno di essi se ne stava in faccia alla luna fantasmagorica, luccicante su un caldo e placido Tejo sciabordante. Sembrava proprio di stare a via Caracciolo, o a Sorrento o a Capri.
Lisbona gremita, rigurgitante di turisti. Lisboa che il brexit ancora, graças a deus, non si fa sentire. Lisboa d’estate senza umido, senza pioggia e senza quei cieli troppo tersi che tagliano come una lama sottile. Appena, di tanto in tanto, qualche rajada di gagliardo vento atlantico da viaggio ultramarino. Però per il mercato di Campos de Ourique è passato il presidente Marcelo Rebelo de Souza. Accompagnato da gorilla e da un ufficiale dei commandos in impeccabile divisa carta da zucchero con tanto di alamari. Passava – mentre noi mangiavamo maminha e robalo, e bevevamo sumo di abacaxi e ortelã – e si lasciava fotografare con le ragazze intanto scattate in piedi, balzando via dai tavoli in pieno delirio da imminente visibilità mediatica. Nuvole di vapore fresco emanano ricadendo su di noi dai tubi sospesi sotto le altissime architetture verde scuro del mercato. La mente un pò si perde correndo alle storie di attentati islamici ed ai così inquietantemente simili tubi di Auschwitz. Se non fosse per le così tranquillizzanti piastrelle gialle dell’altro lato del mercato dove si vende il pesce. È la Lisbona sonnolenta di sempre, um cantinho da paz: – qui, da un pò di tempo, la storia si ingolfa in placide pozze lontane dalle tempeste del mondo. Ed anche Marcelo sorride rassicurante con il suo faccione e le palpebre bovine da sornione avvocato napoletano.
La sera al TG i giornalisti ci informano però che costorioi in realtà dicono solo bugie, nascondendo al popolo la verità, ed intanto continuando a piegarsi imbelli a Bruxelles. Intanto però là fuori la caldissima Lisbona in versione mediterranea sciama ancora di folle festanti. Chi ne percorre le strade è una modernità brulicante affamata di sapori appositamente inventati per i turisti. La loro è un’invasione tanto festosa quanto curiosa e famelica. Qui tutto si offre e tutto si vende. Tutto di quanto fino a pochi decenni orsono era stato solo insignificantemente e stancamente «português». Lo era senza esserlo. Ordinario e speciale, come solo la gente di qui sapeva, e senza dirlo. O Estado Novo si era finalmente dissolto e si voleva solo dimenticare quel genere di appello all’orgoglio nazionale.
Ora il passato però ritorna comunque. Quello per i turisti. Ma lo è per davvero? Dov’è qui quel passato ordinario che sa di muffa e non appartiene mai al forestiero? Dov’è qui il centro di una vasta consapevolezza silente e dimessa ma intanto viva di vita propria? Senhor com licença, mi scusi, come e dove uno straniero può trovare qui una di quelle atmosfere dove si crepa di nostalgia per la propria terra? Dove vi è qui, in mezzo a queste masse, un solo indizio della così sana noia da prosaica patria e da presente pudicamente impastato di passato ed intanto muto?
Sempre più mi sembra che non stiamo vivendo come si dovrebbe vivere…