Italia, primo agosto/13
Forte dei Marmi siamo noi?
Mutazioni e contrasti sociali visti attraverso la località balnerare, perla della Versilia, frequentata negli anni. Che cosa c’era di meglio prima che ci aiuterebbe a migliorare adesso? Una sola risposta è inevitabile…
A Forte dei Marmi, Versilia, Toscana. Nel cuore della controversia, di quell’interrogativo costante che ci insegue accompagnandoci negli anni che aumentano: se sia meglio ciò che è stato o ciò che è. E in che cosa. Questo luogo è paradigmatico, è il luogo che obbliga a questo confronto probabilmente insensato ma che la non rassegnazione a un presente che delude rende inevitabile. Che cosa c’era di meglio prima che ci aiuterebbe a migliorare adesso?
Di questo posto, o meglio delle sue caratteristiche e dei suoi difetti, è già stato detto tutto da Fabio Genovesi, nato qui, nel mirabile pamphlet Morte dei Marmi. Ma forse non è vano ricordare che in questo paese, sorto intorno a un fortino fatto costruire a difesa dell’approdo dal granduca Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena ai piedi delle Apuane, da cui discendevano i marmi che dal pontile venivano imbarcati per abbellire chissà quali dimore patrizie, sono transitati grandi personaggi e molta storia. Chissà in quanti tra gli attuali frequentatori di queste spiagge ne conoscono le leggende e i dintorni. In quanti sanno per esempio che Michelangelo sceglieva su queste montagne i blocchi di marmo da scolpire, che Ariosto fu governatore degli Estensi in Garfagnana, poco distante: boschi e paesaggi bellissimi tra le Alpi Apuane e gli Appennini. O che Byron si bagnò in queste acque, che Böcklin e Hildebrand dipinsero in questi luoghi, come più tardi fece Carrà… E che D’Annunzio andava nudo a cavallo nella sua Versiliana, la pineta ormai tristemente impoverita dei suoi alberi secolari dal devastante uragano del marzo 2015, come del resto molte non più ombrose strade (e case) del Forte. Che Pascoli trascorse i suoi anni più tranquilli vicino a Barga, dove ancora si può visitare la sua casa la cui spoglia e linda cucina resta impressa nella memoria come una poesia. Che a Torre del Lago, frazione di Viareggio, dimorava Puccini che lì è sepolto e che ogni anno viene celebrato dall’ormai noto Festival a lui intitolato, una total immersion nelle sue melodie. E che da Seravezza, dove c’è una bellissima villa Medicea che ospita ogni estate belle mostre (quest’anno Primo Conti), partì un giovane Enrico Pea analfabeta per raggiungere Alessandria d’Egitto, dove incontrò l’amico della vita Ungaretti, e dove imparò a scrivere quel tanto che gli consentì di diventare uno dei più grandi del Novecento.
C’era anche lui al famoso “Quarto Platano”, il caffè dove si riunivano i letterati e dove si potevano incontrare oltre a Carrà, Soffici, De Robertis, Montale, Gadda, Ungaretti, Carlo Bo, Roberto Longhi e Anna Banti, Piero Bigongiari… E dove andava Leone Piccioni, mio padre, talvolta portando con sé i figli piccoli. E poi c’è Pietrasanta, la città in cui convergono gli artisti per i laboratori di marmi e per le fonderie, i quali poi trovano ristoro sulle spiagge del litorale: in anni recenti Mitoraj, Folon, Botero, ma anche Cascella e Pomodoro. Henry Moore me lo ricordo sotto la sua tenda a un bagno del Forte, coi capelli bianchi e il fedele riporto (tre caratteristiche del luogo: “bagno” e non “stabilimento”, le tipiche cabine a forma di casetta da affittare come personale spogliatoio e le mitiche tende, nate assai prima degli ombrelloni, generose d’ombra e oggi costose quanto un mese di affitto di una casa, chessò a Fregene? o forse anche a Sabaudia? Sicuramente di certi luoghi meno battuti della Sardegna). Anche Marino Marini passava qui le estati nella sua casa di vacanza. E c’era Mina, la “Bussola” di Sergio Bernardini alle Focette, dove si esibivano dei grandissimi – Ray Charles, Aretha Franklin, Miriam Makeba – e la “Capannina” di Franceschi. E il Premio Viareggio, ma quello degli anni d’oro (oggi è solo una parvenza).
E poi la vita agra dei cavatori, la guerra, la linea gotica che seguiva un fronte di oltre 300 chilometri sui rilievi delle Apuane, l’orrore dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, compiuto nel 1944, di questi tempi, il 12 agosto, da una divisione nazista delle SS e da elementi della 36° brigata Mussolini con l’aiuto di collaborazionisti fascisti: 560 morti di cui 130 bambini. Una memoria che pesa su certe asperità del paesaggio montano e sui suoi abitanti. Tante le sollecitazioni, tanti i pensieri. I “vu’ cumprà” che inesausti bruciano chilometri sotto il solleone, tristi burattini al soldo di chissà quale mafia che muove i fili, l’Isis che a 320 chilometri da qui, a Nizza, travolge e uccide inconsapevoli e analoghi turisti che fanno lo struscio in passeggiata. I migranti, l’accoglienza, l’indignazione della “illuminista” Capalbio che non li vorrebbe come vicini di casa e quella per le “cicciottelle”, aggettivo che invece dovrebbe essere rivalutato e indossato con orgoglio.
Ma, ed eccoci alla controversia, a chi giova adesso tutta questa memoria, questa ricchezza di esperienze tramandate, inscritte nella natura, nella pietra, nello skyline di questi luoghi? A quale conducente di Suv che corre sfrecciando in modo sconsiderato per le strade in cui le famiglie si aggirano con i bambini in bicicletta? A quale cittadino russo smanioso di sfruttare al meglio un ritrovato benessere ignorato dai suoi avi, che ha eletto a sua patria di adozione questo luogo acquistando a prezzi esorbitanti ville sontuosamente restaurate (o rifatte), che spende senza batter ciglio nei negozi griffati e in cene innaffiate da champagne e da vini pregiati? A quale rampollo di famiglia danarosa, possessore di carta di credito e di macchine superturbo, che non si degna di fermarsi agli stop disprezzando la vita sua e degli altri ma saldamente impegnato a far le ore piccole con presumibile aiuto di sostanze?
Questo luogo sembra rappresentare alla perfezione la tanto nominata ma sempre più tragicamente vera caduta di valori che sta travolgendo, e non da oggi, questa nostra Italia. Una tragedia degli equivoci che continuamente si rappresenta in ogni aspetto della vita pubblica e privata. Disvalori elevati a valori. E non solo la cultura al Forte sembra aver gettato la spugna, anche il genius loci ormai preferisce il silenzio, non parla più. Sparite le attività commerciali caratteristiche, in cui si amava tornare per ritrovare colori, sapori, insomma il gusto locale. Chi resta, chi resiste, segue l’onda, misura il guadagno e si adegua. Inutile proclamare di non essere un pollo da spennare (anche perché le penne ormai son quel che sono)… O ricordarsi che i tuoi nonni, che si son fatti dal nulla, si sono guadagnati e sudati ogni pietra delle case che figli e nipoti si sono ritrovati, o che addirittura hanno contribuito alla bonifica di strade ancora paludose.
Il fatto è, come racconta la proprietaria di un bagno rimasta legata alla sobrietà e per niente desiderosa di seguire l’esempio dei colleghi che hanno trasformato i loro stabilimenti in set per i big dei rotocalchi e della politica spettacolo… il fatto è che una volta i signori erano signori davvero. Dalla loro sobrietà, dalla non ostentazione, dalla naturale buona educazione c’era da imparare, e volentieri. E ricorda Malaparte che amoreggiava con Virginia Agnelli su una barca a vela condotta da suo nonno bagnino… Una volta ai “signorini” la buona educazione la si insegnava, si insegnava la consapevolezza del privilegio, la percezione dell’altro, fossero le “Ine”, le “Fräulein” o i genitori a farlo. (Nella foto, i giovani Agnelli sulla spiaggia di Forte dei Marmi negli anni Trenta con la nonna Jane).
Il privilegio, i signorini, le vacanze, gli insegnamenti, il sapere, la memoria… Accompagnano queste riflessioni le bellissime pagine del libro L’uomo del futuro di Eraldo Affinati (Mondadori), una personalissima ricognizione della vicenda di Don Milani e del testimone che ha idealmente passato a chi tenti di dare un senso alla sua attività di docente, come lo scrittore cerca di fare. I molti luoghi di Don Milani (tra cui la casa di vacanze del “signorino” a Castiglioncello, poco distante dal Forte) e quelli in cui Affinati ha occasione di ritrovare fioriti i semi che il Priore di Barbiana ha sparso: in Gambia, a Berlino, in Marocco, a Pechino, a New York, a Benares.
Un testimone affidato anche allo studente se vuole raccoglierlo… Ma come indurlo a farlo, come ristabilire le basi, come rimettere mano alla formazione degli uomini dell’inevitabile futuro che sono i soli a nutrire la nostra speranza che un giorno qualche cosa di dritto scaturisca dal legno storto? A sciogliere la controversia, o per lo meno a individuare una possibile risposta, viene in soccorso un pensiero di Don Milani espresso in una lettera a Marcello Inghilesi: «I ragazzi sono dei poveri ingannati… Ognuno tira per la sua strada disinteressandosi del prossimo. Vi siete forse illusi di poter fare una scuola democratica? È un errore. La scuola deve essere monarchica assolutistica e è democratica solo nel fine cioè solo in quanto il monarca che la guida costruisce nei ragazzi i mezzi della democrazia». Ecco, forse bisognerebbe ricominciare da lì.