Rosaria Persia
Raccontare il corpo/6

Fillus de anima

«Mia nonna mi osservava e sorrideva a me come a tutti i viaggiatori che giungevano alla stazione di Tempio Pausania, con l’unica differenza che io ero tornata per lei, per ripercorrere la sua vita»

Le ragazze al centro osservavano con sguardo dolce, entrambe, ma l’una pareva pudìca nel suo volersi schermire, l’altra invece, sfrontata, guardava negli occhi, con sguardo civettuolo. Avvolte negli scialli, agghindate col vestito della domenica, sembravano riflettere l’ironico commento del pittore sulle trasformazioni portate dal progresso in un mondo arcaico. Le aveva ritratte così, con le gonne corte alla caviglia, un ricciolo tirabaci e un filo di rossetto, inevitabile pedaggio da pagare alla civiltà che si insinuava come un serpente in un mondo con le sue regole ferree, dinanzi alle quali non si poteva sgarrare, pena una faida che avrebbe lavato col sangue le colpe, come accaduto ad Orune, in Barbagia, o ad Arzana, nell’Ogliastra.

Mia nonna mi osservava e sorrideva a me come a tutti i viaggiatori che giungevano alla stazione di Tempio Pausania, con l’unica differenza che io ero tornata per lei, per ripercorrere la sua vita, della quale mi restavano solo alcuni frammenti. Era una donna schiva e ritrosa, di un’alterigia che, allora, quando ero ancora inconsapevole delle fatiche e dei colpi che aveva ricevuto, mi feriva.

– Ajò, signorina!

La voce mi risvegliò dai miei pensieri: senza rendermene conto mi ero fermata in un corridoio di transito per l’accesso ai treni e, con la valigia, bloccavo il passaggio.

– Mi scusi molto… mi ero fermata ad osservare il quadro.

– Tutti le guardano le belle ragazze di Giuseppe Biasi. Sono osilesi, sa? Mia moglie è di Osilo; io ci sono andato apposta.

Abbozzai un sorriso dinanzi alla schiettezza dello sconosciuto, poi mi voltai e ripresi a camminare.

“Stazione di Tempio Pausania, il treno per Osilo è in partenza dal binario 2”.

La voce metallica annunciava il mio treno.

Una corsa affannata per raggiungere il binario e salire sul vagone, un fischio, poi di nuovo in viaggio in quella terra che mi aveva vista bambina, ma mai donna.

Me la ricordavo quella terra riarsa dal sole, mentre mi dondolavo, sull’altalena che aveva costruito tzio Filippo con le sue mani, da un muro all’altro dell’orto che allora mi pareva smisurato. Era mio quel mondo di pane carasau fatto in casa da tzia Maddalena e delle storie di “Maria Lentolu” che Mimma mi raccontava la sera prima di andare a dormire. Era mio prima che me lo strappassero, che mi portassero via in una giornata ventosa di settembre.

– Sa gonca de su babbu[1] –  mi ripeteva Don Vittorio, il parroco di Alà, ogni volta che mi incontrava e il mio babbo sì che sorrideva, orgoglioso di quella bimba alta e scura che assomigliava tanto a lui e non alla donna bionda che aveva sposato.

Il paesaggio scorreva velocemente dal finestrino e il giallo dell’erba bruciata si alternava al verde intenso del mirto con le sue bacche bluastre, e al marrone rossastro degli alberi di sughero, con quei fusti contorti come corpi feriti.

Bellas de cara e nobiles de coro”[2]. Mi tornava in mente il verso della poetessa Maria Farina che descriveva le ragazze di Osilo. Era bella mia nonna, senza averne l’aria, nobile lo era nel portamento, di cuore forse lo era senza avvedersene. Quello che aveva avuto, in ogni caso, lo aveva perso in un pomeriggio caldo di fine agosto, quando il marito si era accasciato sulla panchina del parco in cui ogni giorno amavano passeggiare. Lo aveva incontrato per caso alla Faradda di li candareriquando era soldato quel giovane dagli occhi verdi e dal sorriso gentile, e le era sembrato la sua salvezza da una vita da reclusa dopo la morte della sorella e dei genitori.

Il treno si avvicinava al paese, di lontano si vedevano le due torri del Castello che i Malaspina avevano fatto costruire su una delle tre cime del monte Tuffudesu.

Il mio ritorno in quella terra era stato necessario: avevo bisogno di sapere, come un’orfana cui è stata sottratta una parte dell’esistenza.

– Sembri una fill’e anima – mi aveva detto mia madre, quando le avevo parlato della mia scelta di partire. Forse era vero, ero una dei tanti fillus de anima, alla ricerca della propria storia.

I tasselli di quella vita avevo iniziato a metterli insieme con una sollecitudine da giornalista che intervista tutti coloro che possono essere utili a fornire dettagli.

Mia zia mi aveva raccontato del quadro, di come Biasi avesse chiesto a mia nonna di poterla ritrarre e di come le avesse lasciato di sé un paravento dipinto, promettendole che alla sua morte sarebbe diventata ricca. Quel paravento era finito bruciato nel camino, un giorno in cui mio nonno era tornato al paese e la casa era fredda. Distrutto insieme ai tanti ricordi di una vita. Biasi, poi, era stato ucciso, trucidato come un fascista, lui che invece fascista non lo era stato mai e collaborazionista neppure. Dopo la sua morte era arrivato il successo, esploso come il proiettile di un fucile, e il re Umberto, giunto in Sardegna, aveva espresso il desiderio di vedere quella ragazza da lui ritratta. Non era uscita di casa per un anno intero per le malelingue, sepolta viva tra i lavori di ricamo e quelli di tessitura.

I fichi d’india circondavano le rotaie ora, in un paesaggio via via più arido, quasi desertico, sotto un sole di mezzogiorno che non mostrava più neppure un’ombra sotto cui ripararsi.

– Biglietto, prego!

Il controllore mi costrinse a voltarmi; frugai nella borsa, estrassi il biglietto e glielo porsi.

– Tutto a posto, signorina. Ho visto che scende a Osilo, le consiglio di prepararsi. Siamo quasi arrivati.

– Grazie, ma… farò in fretta, ho pochi bagagli.

Avevo bisogno di qualche minuto ancora. Avevo bisogno di guardare fuori dal finestrino quel paesaggio antico.

La risposta l’avrei avuta lì. Ne ero certa. Me l’avrebbe data quel luogo in cui tutto aveva avuto inizio.

Il treno si fermò con un rumore metallico. Mi accodai ad una mamma con due bambini piccoli, uno ancora in fasce. Faceva fatica, da sola, così mi offrii di aiutarla. Mi ringraziò con un cenno del capo.

Il fischio del treno che stava ripartendo fece sussultare il bimbo che dormiva tra le braccia della madre. Il pianto esplose immediatamente, seguìto da singulti. La poverina, non sapendo come calmarlo, iniziò a cullarlo e a cantare:

“Pentona pentona coa e cabixietta e coa e caboru
Fai su piu onu, su piu oneddau
Andau a santu Francau a Pompu
A nui bendinti piriccoccu e nuxiedda
Po’ ‘ndi preni sa buxiacchedda de custa pippiedda”
[3].

Le braccine sollevate in aria si abbassarono pian piano grazie alla voce cadenzata della donna. Una filastrocca familiare, che avevo sentito centinaia di volte, ma che avevo accantonato. Nonna… I giochi di bambina…

Era ora di andare. Poggiai la valigia a terra, salutai frettolosamente e mi avviai, zaino in spalla.

All’una il paese sembrava addormentato, si udiva solo il fischio del vento che soffiava da sempre nella zona di San Valentino.

Me lo raccontava la nonna che a volte, la notte, urlava quel vento maledetto e sembrava l’ululato di un lupo. Lei, da bambina, si nascondeva sotto le lenzuola e diceva un’Ave Maria alla Madonna per scansare la paura e qualche volta ci aggiungeva anche un Eterno riposo per le anime dei morti. Le preghiere me le aveva insegnate tutte nei primi cinque anni della mia vita, ma io avevo cercato di dimenticarle nei successivi vent’anni, soffocandole tra le feste dell’Unità e gli studi di filosofia.

Era fiera mia nonna di una nipote così dedita agli studi, lei che invece non aveva potuto studiare perché il padre, quando il maestro era andato a chiamarla a casa, gli aveva risposto che non aveva figlie da mandare in malora. Ma la passione per la lettura non era riuscito a togliergliela e, per leggere, se n’andava in soffitta e diceva alla madre che doveva setacciare la farina. I promessi sposi la aspettavano lì, tra la paglia e la frutta lasciata a maturare.

Piazza San Valentino. Ero arrivata. La vecchia casa era come me l’avevano descritta: due piani, una soffitta, le mura di un rosa pallido, consumato dal tempo.  Bussai. Niente. Provai di nuovo. Sentii il rumore dei passi che si avvicinavano.

Mi aprì la persona che aspettavo. Non mi fece entrare.

– Non dovevi venire. Lo sai. Tanto in su nascer e in su morrer tottus semus chi pare[4].

– Te l’ho detto per telefono. Voglio sapere. Ne ho bisogno.

– Va’, allora, dalla Madonna dei naviganti.

La Chiesa di Nostra Signora di Bonaria era sulla vetta. Impiegai molto tempo a raggiungerla, ma dovevo. Lo stato di semiabbandono mi aiutò. Le carte erano lì, tra le mura semidiroccate. Mi avvicinai ai registri parrocchiali con il fervore di un officiante. Controllai anche lo Status Animarum: quell’anno erano morte due bambine. Una aveva il mio nome.

[1] La testa di suo padre.

[2] Belle di viso e nobili di cuore.

[3] Pettina pettina coda di lucertola coda di serpente/ Fai belli i capelli, i capelli abboccolati / Andiamo a San Francesco a Pompu/ Dove vendono albicocche e noccioline/ Per riempire la taschina di questa bambina.

[4] Nel morire e nel nascere tutti siamo uguali.

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rosaria persia (1)Mi chiamo Rosaria Persia, sono nata a Sassari il 28/01/1974 e vivo in Abruzzo, precisamente a Montorio al Vomano, con la mia famiglia. Un diploma al Liceo Classico “M. Delfico”, gli studi di Lettere Classiche con indirizzo archeologico, a Firenze, una città straordinaria, poi l’insegnamento di Italiano e Latino al Liceo Scientifico. In passato ho collaborato con il Polo Museale della Città di Teramo, di cui ho curato la guida “Con il Museo attraverso i luoghi e il tempo”. La mia vita, negli ultimi quindici anni, è stata occupata dolcemente dai miei figli, Alessandro e Cristiano, e da una passione viscerale per la scrittura; ho scritto con loro e per loro e a loro ho raccontato sempre mille storie.

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