Italia, primo agosto/11
Calderón solitario
Una mattina in libreria insieme a “La vita è sogno” di Calderón de la Barca. Libro onnipresente, in parecchie occasioni ammirato per l’intestazione e per il tema, mai letto...
Inizia agosto e finisco in libreria, stessa spiaggia stesso mare. Con la calura i parametri non mutano. Il cielo terso si riflette sulle vetrate, che ne accolgono di buona lena il manto cinerino. L’estate si arrampica sui palazzi, svolta gli angoli delle vie, taglia la strada a qualche vecchietta, come un ladro dopo una rapina che lascia una scia di intenso profumo. Il negozio non è granché affollato, ma quel tanto che basta per circolare non visto, come nudo e semplice “occhieggiatore di titoli”, sport per quale conto, prima o poi, di ricevere una convocazione olimpica. Con innocenza da flâneur mi soffermo sullo scaffale Teatro, notoriamente di fianco al sempre più anoressico scaffale Poesia. La vita è sogno, Calderón de la Barca. Libro onnipresente, in parecchie occasioni ammirato per l’intestazione e per il tema, mai letto. Dopo aver prontamente dato due “colpi di maschera” a destra e a sinistra, lo sfoglio.
Calderón de la Barca, ultimo esponente del siglo de oro, è un nome abbastanza ricco di assonanze per convincermi. Come Lope de Vega, mi piace il suo culto per il casticismo castigliano e per l’eleganza italiana. D’altra parte Ingeborg Bachmann, in Letteratura come utopia, affermava: «Non esiste nulla di più misterioso dello splendore dei nomi e del nostro attaccamento a tali nomi, e nemmeno la non conoscenza delle opere che li illustrano impedisce a Lulu e a Ondina, a Emma Bovary e Anna Karenina, a Don Chisciotte, a Rastignac, a Enrico il Verde e a Hans Castorp di condurre un’esistenza trionfale».
In effetti, oltre all’icastico Calderón, è un altro il nome che mi ammalia: Rosaura, protagonista femminile del dramma, figlia di Clotaldo. Qui il potere evocativo raggiunge l’apice, la libreria sembra svanire. Rimane alto al vento della dissonanza “Rosaura”, nome talmente abusato in Commedia dell’Arte che ne diviene l’innamorata per eccellenza; eppure oggi con tono inedito, inudito, uscito per la prima volta dal contorno lieve e insieme screziato della sua sillabazione. “Rosaura, Rosaura”, ripeto in mente. Dopo aver pagato con viso alquanto inebetito, il ciclone della parola mi investe sulla soglia. Il viale è colmo di persone in abiti leggeri che sono visibilmente soddisfatte della leggerezza dei loro indumenti.
Nell’avere quel preciso nome – mi domando – non c’è forse un indizio, una traccia di ciò che si è, di ciò che si farà? Il nome non è mai muto, vuoto snocciolamento di vocali e consonanti. Raccoglie in sé, con la forza del suono e della particolare combinazione, i tratti più evidenti della personalità, persino le azioni, lo stile, la nobiltà d’animo di un essere umano, di una cosa. La parola “cautela” non crea un’immediata immagine nell’intimo? Qualcosa di fermo e grigio, qualcosa che sa restare ritto, in equilibrio sul proprio corpo…
Mi siedo su una panchina. Sigismondo, a causa delle previsioni astrologiche del padre Basilio, il re della Polonia, è rinchiuso in una torre. Entrano in scena Rosaura e il servo Clarino. Scorgono la flebile luce dalla torre. Sigismondo è incredulo di fronte alla dolcezza dell’apparizione. «Tu voz pudo enternecerme, tu presencia suspenderme, y tu respeto turbarme. ¿Quién eres?» («La tua voce riesce a intenerirmi, la tua presenza mi sospende e provo per te un rispetto che mi turba. Chi sei?»). Che Rosaura fosse bella, non lo sapevamo già dall’intuizione del suo nome? Cos’è una presenza che sospende? Più avanti: «Tú sólo, tú has suspendido la pasión a mis enojos, la suspensión a mis ojos, la admiración al oído» («Tu solo, tu hai sospeso la passione alla mia collera, la sospensione ai miei occhi, l’ammirazione al mio udito»). Ancora sospensione: interruzione, fermata, blocco, arresto. Vita che non scorre più come prima. Cesura, frattura rispetto al prima, per un dopo incerto a seguito della visione. C’è un punto d’interstizio tra ciò che si vede e ciò che dà la morte. Il guardare fa sì che si rimanga a mezza altezza, a metà strada: «Ojos hidrópicos creo que mis ojos deben ser; pues cuando es muerte el beber, beben más, y de esta suerte, viendo que el ver me da muerte, estoy muriendo por ver. Pero véate yo y muera; que no sé, rendido ya, si el verte murte me da, el no verte ¿qué me diera?» («Credo che i miei occhi debbano essere idropici, poiché quando il bere è morte, essi bevono di più, e di questa sorte, vedendo che il vedere mi dà morte, muoio per vederti. Però ti veda e muoia: perché non so, se il vederti mi dà morte, il non vederti cosa mi darebbe?»). Perché non siamo più in grado di avere occhi idropici, che sanno incantarsi? Non abbiamo sete di ammirazione. Il viale si dirada lentamente all’ora del tramonto. Torno in sella alla bicicletta sgangherata di mia nonna con il vento che arriva, questa volta, dalla forza del pedalare.
Per Rilke il «guardato» è «gioia dell’occhio». Tanto che sarebbe meraviglioso, come suggerisce Dante, «s’io m’intuassi come tu t’inmii». La gioia dell’occhio è l’impossibilità di colui che guarda di essere ciò che guarda. «Cómo quisiera ser/ eso que yo te doy/ y no quien te lo da» («Come vorrei essere/ quello che ti do/ e non chi te lo dà), dice Salinas. La gioia del nome, la gioia dell’occhio, il dolore della separazione. Primo agosto di un altro anno della nostra vita.