La Domenica: itinerari per un giorno di festa
Sua maestà la Regina
Roma, Via Appia Antica, “regina viarum”. La mitologica strada consolare ancora oggi riserva continue sorprese archeologiche come rivelano recenti annessioni al patrimonio pubblico, nuove tappe di un percorso obbligatorio. Un esempio? Villa Capo di Bove e la tenuta di Santa Maria Nova
Alberto Bevilacqua, lo scrittore di Parma che aveva scelto Roma per viverci, raccontava volentieri di una spedizione, quando la Capitale era meno volgare e martoriata, sulla via Appia Antica. Ci accompagnò Orson Welles e Alberto Sordi. Un terzetto invaghito della campagna e dei ruderi romani, nei pressi della chiesetta di Quo Vadis?, dove Mervyn LeRoy girò una delle tante versioni dal romanzo di Sinkiewicz. Della via Appia s’è fatta fin troppa mitologia e cronaca. Le denunce sugli abusi edilizi, sul tormento del traffico, anche di camion peggiori di bulldozer, non basterebbero mai. Ma oggi ci piace riandare sul basolato, sul saliscendi delle colline che il caldo estivo ha ingiallito. Sotto i pini ci arpiona la frescura, le cicale assordano impetuose. La mente va alle memorie dell’Urbs, all’apostolo Paolo, che qui passò venendo dall’Oriente del quale l’Appia era la porta verso la penisola italica. Al ricco pagano convertito sulla via di Damasco apparve la maestosità del cuore dell’impero proprio dalle propaggini della regina viarum. Poi nella capitale fu messo in ceppi con l’apostolo Pietro, si dice, in quel carcere Mamertino o Tullianum ai Fori Imperiali che ha appena riaperto al pubblico.
La celeberrima strada consolare – solcata, come fossero “cippi” (peraltro sorsero qui le prime pietre miliari) da testimonianze degli antichi romani (le ville, i sepolcri) e appunto dei primi cristiani – può essere meta proprio ora di una passeggiata, al mattino presto o al tramonto. Una meta da raggiungere col mezzo pubblico (il benemerito 118 fa capolinea da un anno a piazza Venezia ed effettua un percorso “turistico” toccando Porta San Sebastiano, Quo Vadis?, le catacombe di San Callisto, Santa Domitilla e San Sebastiano, il complesso di Massenzio, il Mausoleo di Cecilia Metella, la villa dei Quintili). Oppure ci si può arrivare in bicicletta, come facevano i nostri nonni. Loro, autarchici, issavano moglie o figli sulla canna e via tutti in fila col fagotto sistemato sul sellino per la merenda “fori porta”. Della via Appia la Tomba di Cecilia Metella è come la sala di rappresentanza. Non c’è turista che non ci passi qualche ora, a scattare foto. Va però apprezzata una recente acquisizione della Sovrintendenza archeologica, la tenuta di Santa Maria Nova, quattro ettari al confine della Villa dei Quintili, da poco tempo oggetto di restauro. Perché l’Appia è un continuo cantiere archeologico e aggiunge al fascino dei monumenti e del paesaggio quello della storia. Per esempio, ricorda Rita Paris, direttrice Mibact della regina viarum, che «probabilmente nei pressi di Santa Maria Nova si svolse la battaglia degli Orazi e dei Curiazi».
Un’altra tappa da effettuare, se vogliamo conoscere le annessioni 2.0 al patrimonio pubblico, si trova 450 metri più a sud del Mausoleo di Cecilia Metella. È Villa Capo di Bove (a destra, in una foto dall’alto, ndr), edificio acquistato nel 2002 dalla Sovrintendenza Archeologica di Roma. Ci dà l’occasione di vedere altre vetuste costruzioni, di sostare sotto l’ombra di un pino mai prima utilizzata. Insieme alla frescura, a un refolo, godremo di qualche scorcio che avevamo dimenticato. Intanto, che cosa è Villa Capo di Bove, al civico 222 dell’Appia Antica? Una “casa ad uso vigna”, secondo l’ottocentesco Catasto Gregoriano. Vale a dire un’abitazione di contadini col grande podere intorno. Ma costruita sopra una cisterna romana, a sua volta contornata – come hanno rilevato gli scavi archeologici su 1400 metri quadrati – da resti importanti: uno stabilimento termale del secondo secolo dopo Cristo, usato (e modificato) per i duecento anni successivi, durante e dopo il medioevo. Insomma, sei secoli di storia e pietre sotto un prato e un filare di pini.
Villa Capo di Bove, col suo casale rustico e il portico che riusa snelle e vetuste colonne, ospita l’Archivio Cederna, donato allo Stato dalla famiglia dell’ambientalista-politico-intellettuale che più si è battuto contro le offese alla via Appia. Così la descriveva nel 1953 su Il Mondo: «Era un monumento unico, da salvare religiosamente intatto, per la sua storia e per le sue leggende, per le sue rovine e per i suoi alberi, per la campagna e per il paesaggio, per la vista, la solitudine, il silenzio, per la sua luce, le sue albe e i suoi tramonti. Andava salvata religiosamente perché da secoli gli uomini di talento di tutto il mondo l’avevano amata, descritta, dipinta, cantata, trasformandola in realtà fantastica, in momento dello spirito, creando un’opera d’arte di un’opera d’arte: la Via Appia era intoccabile, come l’Acropoli di Atene». Tutto vero.
Della leggendaria Roma cristiana testimonia la chiesetta di Santa Maria in Palmis, detta pure Quo vadis? La troviamo al bivio tra Appia Antica e Ardeatina. Ma non è più la cappella del IX secolo. È un tempietto rifatto nel Seicento, e quasi il marchio all’epoca lo dà, sul timpano, lo stemma dei Barberini. Fu qui, secondo Gli Atti di Pietro che l’apostolo, in fuga dagli sgherri di Nerone, avrebbe “rivisto” il Salvatore. Domine, quo vadis?, la domanda tra batticuore e speranza. E Gesù: Eo Romam iterum crucifici, «Vengo a Roma per farmi crocifiggere di nuovo». L’apostolo capì e tornò indietro, pronto al martirio. Fu ucciso come l’apostolo di Tarso, Paolo. Uno fu crocifisso a testa in giù, l’altro decapitato. Erano gli anni tra il 64 e il 67 dopo Cristo. La via Appia, cominciata a costruire quasi 400 anni prima, aveva appena collegato Roma a Brindisi.