In memoria dell'11 luglio 1991
Srebrenica senza ali
La tragedia di Srebrenica, ventuno anni dopo, nelle parole di un sopravvissuto, il regista Ado Hasanovic: «Quando non si sentivano gli spari dei kalasnikov o le esplosioni delle granate, allora c'era da preoccuparsi. È strano, ma il silenzio in guerra non è una cosa normale»
Hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.
Eugenio Montale, Ti libero la fronte dai ghiaccioli,
Le occasioni, 1939
Oggi in Bosnia (e vorremmo poter dire in Europa ma anche nel resto del mondo) è il giorno della memoria di uno degli eventi più luttuosi e drammatici mai accaduti dalla fine del secondo conflitto mondiale. Parliamo del genocidio avvenuto a Srebrenica l’11 luglio 1995, cinquant’anni dopo Auschwitz, quando si pensava che non avremmo più conosciuto simili tragedie. Eppure, ventun anni fa, più di ottomila uomini bosniaci (ma le stime oggi dicono che le vittime sono state oltre diecimila) compresi tra i 14 e i 65 anni, di confessione musulmana, furono trucidati in 72 ore dal generale serbo della repubblica separatista SRPSKA, Ratko Mladic. Non tutti erano originari del luogo, molti erano arrivati dai villaggi vicini messi a ferro e fuoco dalle milizie serbo-bosniache (coadiuvate dai gruppi paramilitari delle Aquile bianche e delle Tigri di Arkan, segretamente finanziati da Milosevic), per cercare rifugio nella limitrofa base ONU di Potocari. Ma al posto della protezione trovarono la morte. Uomini e donne furono subito separati: gli uni per essere massacrati, i corpi gettati nelle fosse comuni (ancora oggi si sta scavando per recuperare e identificare tutti i corpi); le altre per essere violentate sotto gli occhi indifferenti dei pochi caschi blu rimasti. La pulizia etnica che giustificava tale carneficina era il risultato di odii atavici (che peraltro già si erano manifestati durante l’ultima guerra mondiale – un nome su tutti il lager di Jasenovac – e che avevano continuato a covare sotto la cenere nella Jugoslavia unificata di Tito); ma, soprattutto, era l’effetto di sentimenti nazionalistici esasperati ad hoc.
Il riaccendersi di velleità separatistiche un po’ in tutta Europa, che hanno trovato una prima concretizzazione nella fuoriuscita della Gran Bretagna dalla Ue, proprio in questi giorni hanno fatto levare molte voci che ci hanno esortato a non dimenticare le guerre indipendentiste degli anni Novanta nei Balcani.
Anche quelle iniziarono in sordina, tanto che agli occhi degli osservatori internazionali sembravano legittime spinte autonomistiche. Culminarono invece nell’assedio più lungo della storia, quello di Sarajevo (dove per cinque lunghi anni civili inermi furono sotto il fuoco incessante dei fucili e dei cannoni serbi che sparavano dalle colline vicine) e finirono con un genocidio.
Genocidio che oggi vogliamo commemorare attraverso la testimonianza preziosa di un sopravvissuto, il giovane regista bosniaco Ado Hasanovic.
Quando le truppe serbo-bosniache arrivarono a Srebrenica nel 1993 tu eri un bambino. Cosa ricordi di quei terribili giorni?
C’è un ricordo che ho impresso nella memoria: avevo sei anni, io e la mia famiglia ci eravamo rifugiati nei boschi per scampare alle razzie dei soldati. Dalla collinetta potevamo guardare giù, verso la nostra casa, quando, ad un certo momento, sentimmo un’esplosione. Mio padre, che faceva il tassista, mi disse: quella è la nostra macchina. Guardai verso l’auto incendiata e pensai che dentro c’era il mio giocattolo preferito che stava bruciando. Io sentivo le grida atroci delle persone che venivano massacrate per la strada, ma – ancora adesso fatico a capacitarmi – riuscivo a pensare solo al mio gioco che non c’era più. Non c’era più. Come la mia infanzia.
Poi la situazione è precipitata. Come hai fatto a salvarti?
Ricordo che non sapevamo dove andare, dove dormire, senza scarpe, senza cibo e senza acqua. Dico una cosa che potrà sembrare paradossale: in guerra non si ha paura di morire. Si ha così tanta fame, così tanta sete, che non si riesce a pensare ad altro. La paura della morte passa in secondo piano. Noi attraversavamo i boschi e c’erano mine e granate dappertutto. Il pericolo era ovunque. Ma noi avevamo solo il pensiero fisso di mangiare. Un’altra cosa che non dimenticherò mai era il silenzio. Quando non si sentivano gli spari dei kalasnikov o le esplosioni delle granate, allora c’era da preoccuparsi. È strano, ma il silenzio in guerra non è una cosa normale. Tale situazione durò dal maggio 1992 fino al marzo del 1993, quando arrivò un convoglio dell’Onu con dei viveri. Su questo camion diretto a Tuzla, mio padre riuscì a caricare me, mia madre, mia sorella e mio fratello, nonostante la marea di persone che lottava per salire. Noi ci salvammo, ma non tutti riuscirono a salire. Lui rimase lì, per combattere insieme agli altri uomini. Noi lo salutavamo con le mani e pensavamo che non lo avremmo rivisto mai più. Per fortuna decise di non andare a Potocari ma di riparare nei boschi insieme ad altri 12000. Solo 3500 tornarono a casa.
Come ci sente ad essere sopravvissuti?
Io sono sopravvissuto, ma la guerra mi ha portato via tutto: la casa dove vivevo, che era quella dei miei nonni, piena di cose quotidiane e senza valore, solo per noi tanto preziose, tutta bruciata. Anche le foto andate in fumo e con loro i ricordi. Quelli del nostro passato, dei nostri cari, di noi. Sono sopravvissuto, è vero, ma ma molti membri della mia famiglia, no. Io ho sempre cercato di pensare in modo positivo, solo così si può resistere e vivere.
Mi hai detto che per te è sempre difficile parlare della guerra, di Srebrenica. E per molto tempo non hai potuto farlo. Poi hai trovato il modo di esprimere sentimenti ed emozioni attraverso le immagini dei tuoi film.
Mi sono diplomato alla Sarajevo Film Academy e adesso sto per conseguire la laurea al Centro Sperimentale di cinematografia di Roma. Il cinema mi ha aiutato ad andare avanti, attraverso i miei film ho potuto raccontare ciò che è successo, il passato e poi il presente di Srebrenica. Soprattutto, il cinema è il mio canale privilegiato per entrare in sintonia con l’anima delle persone.
C’è un film in particolare, The Angel of Srebrenica, che trovo davvero toccante in questo senso. Forse perché la protagonista mi ricorda molto da vicino Clizia, la donna-angelo di Montale, che vuole salvare l’umanità precipitata nell’orrore di una nuova guerra. E la sofferenza la rende così vulnerabile: ha le ali lacerate, non riesce più a dormire… Trovi che anche la tua ballerina sia così?
Sicuramente sì. La mia ballerina è un angelo perché la sua natura è pura e innocente. Anche lei come la donna del vostro poeta non ha difese di fronte alla devastazione di questa guerra: il dolore è tale da farle perdere l’equilibrio lungo le strade di Srebrenica, di fronte ai muri crivellati di colpi delle case diroccate. Ma è quando arriva alla foresta di lapidi bianche del cimitero di Potocari che viene completamente sopraffatta. E le sue ali cadono a terra.
Clicca qui per vedere il promo del film: https://www.youtube.com/watch?v=5Qq-lmZ1fEM