Laura Novelli
Intervista all'attore/drammaturgo

Scimone & Amore

«La nostra società ci rende tutti connessi, tutti globalizzati, tutti in comunicazione con tutti, ma in realtà manca un contatto vero tra le persone; siamo semmai tutti più soli, più distanti, divisi, chiusi, isolati. Credo che, parlando in termini generali, non ci sia più amore per l’altro»: parla Spiro Scimone

Qualche anno fa incontrai per caso Spiro Scimone a Roma, in uno slargo del quartiere Flaminio. Ritrovarmi inaspettatamente faccia a faccia con un drammaturgo e un artista che ha fortemente influenzato la mia formazione teatrale, la mia idea di teatro, fu una bella sorpresa della vita. Naturalmente gli chiesi a cosa stesse lavorando e lui mi rispose sorridente che stava pensando, insieme con Francesco Sframeli, ad un nuovo lavoro sul tema dell’amore. Non riuscii ad estorcergli altri particolari. Dunque, non mi rimase che attendere.

Adesso Amore è uno spettacolo, l’ottavo del collaudato duo artefice di capolavori quali Nunzio, Bar, La festa, Il cortile, La busta, Pali, Giù,che ha debuttato a Messina in autunno con la regia dello stesso Sframeli e le scene di Lino Fiorito (nel cast figurano autore e regista, insieme con Gianluca Cesale e Giulia Weber) e che sarà alle Orestiadi di Gibellina il 5 agosto per poi fare tappa a Roma, Teatro India, nel mese di ottobre. Un lavoro di cui la compagnia è molto contenta “perché – mi racconta Spiro al telefono – nella situazione attuale non è facile lavorare e se si fanno spettacoli che vanno bene è logico tirare un respiro di sollievo”.

Come nasce il desiderio di affrontare una tematica come l’amore?

Non riesco a spiegarlo. Sentivamo il bisogno di parlare di certe cose. Pian piano ci siamo accorti che questa necessità era vera, autentica. L’abbiamo elaborata e così siamo arrivati a questo esito. In pratica, lo stesso procedimento che abbiamo adottato per tutte le nostre produzioni precedenti.

In scena ci sono due coppie, una eterosessuale e una omosessuale, che si ritrovano in tarda età sulle tombe di un cimitero a parlare di se stessi, del passato, di ciò che avrebbero potuto fare o dirsi e che invece non hanno fatto né detto. Di che amore si tratta?

Di quello universale. Abbiamo avvertito l’urgenza di riflettere sull’amore inteso non solo come dimensione di coppia ma anche e soprattutto come sentimento diffuso, comune, che tocca tutti gli individui. I personaggi (La Vecchietta, il Vecchietto, Il Comandante, il Pompiere, ndr) sono tutti e quattro anziani. E non è un caso: quando stai per avvicinarti alla morte, questo bisogno di amore è più forte e loro hanno un’evidente necessità di recuperare qualcosa di importante: un rapporto più vero con l’altro/l’altra, un contatto fisico, una relazione più profonda, più umana, anche fosse solo un bacio, un abbraccio.

amore scimoneLeggendo il testo, si intuisce sin da subito l’impianto metaforico e surreale su cui hai costruito questa storia che, nella sua originalità, è molto emblematica dei nostri tempi. Sbaglio?

È proprio così. La nostra società ci rende tutti connessi, tutti globalizzati, tutti in comunicazione con tutti, ma in realtà manca un contatto vero tra le persone; siamo semmai tutti più soli, più distanti, divisi, chiusi, isolati. Credo che, parlando in termini generali, non ci sia più amore per l’altro. Laddove la parola amore sta per accettazione dell’altro, comprensione della sensibilità altrui, curiosità per il mondo di chi ci sta vicino. Chi fa teatro e chi va a teatro deve essere curioso per forza, deve avere quella curiosità che riguarda l’Uomo, le persone e che, in definitiva, va adottata in primo luogo nei confronti di se stessi.

Qui porti in scena dei vecchi ma li immagini seduti su delle tombe che sono anche dei letti. Inoltre parli di pannoloni, di baci con la lingua, viaggi, lenzuola sotto cui infilarsi. Una galleria di immagini simboliche lontane dal tema della morte: a che generazione di spettatori pensi di rivolgerti prevalentemente?

Ai giovani. La scelta di parlare di quattro personaggi tutti e quattro vecchietti non significa voler raccontare la loro vecchiaia bensì, al contrario, volerne ripercorrere la giovinezza per dire ai ragazzi odierni di non perdere tempo, di non avere paura di amare sul serio, di non esitare a mettersi in gioco in modo profondo, autentico. I protagonisti di Amore tornano indietro nel tempo e si accorgono di non aver fatto alcune cose che ora vorrebbero fare. Ci provano a recuperare quanto perso e vanno sempre più indietro nel passato, fino a tornare quasi bambini.

Due personaggi in particolare, il Vecchietto e il Comandante, sembrano ossessivi nel loro porre domande, avere incertezze, vuoti di memoria. Perché li hai messi in questa situazione di ambiguità del dire?

Certamente sembra che entrambi soffrano di vuoti di memoria. Ma il primo in modo più autentico, ha un reale bisogno che la donna lo riporti al loro vissuto. Il secondo invece non si capisce se è vero che non ricordi o se parli così per pudore, per esorcizzare la paura giovanile di confessare la sua omosessualità. Anche il Pompiere aveva sofferto dello stesso disagio ma nel Comandante l’ambiguità di atteggiamento rispetto al passato è molto più forte.

Hai parlato di donna. E stavolta in scena c’è realmente un’attrice, Giulia Weber, che interpreta un personaggio femminile. Una scelta importante anche pensando a lavori come La festa,dove invece la madre era stata affidata alla tua stessa interpretazione.

Per prima cosa vorrei chiarire che i personaggi femminili, anche solo allusi o evocati, ci sono in quasi tutti i nostri lavori. Qui però per la prima volta c’è un’interprete femminile perché sentivamo di dover inserire necessariamente una donna. Una donna-attrice, un corpo di donna-attrice. Giulia, oltre ad essere bravissima, è un’amica di sempre: ha studiato con Francesco, ci conosciamo da trent’anni. Dunque ci è venuto naturale pensare a lei perché il nostro teatro parte sempre dall’attore, dalla sua fisicità, dalla sua umanità. E’ un aspetto molto importante del nostro lavoro. Un aspetto che invece oggi credo venga spesso trascurato, con il rischio di assumere un atteggiamento troppo superficiale rispetto proprio all’attore, cioè all’essenza, all’origine del teatro.

scimone sframeliUna fisicità da cui, immagino, parta anche la regia di Sframeli: come ha lavorato nel portare in scena il tuo testo?

La scrittura e la regia per noi non sono momenti divisi, separati. Lo spettacolo prende forma nell’intarsio continuo di parole e azioni, battute e corpi. Francesco si definisce infatti un “distillatore”. Uno che porta alla superficie l’essenza degli attori attraverso la strada della scrittura. La cosa più importante è vedere come interagiscono questi corpi, amare questi attori, conoscerli bene come persone. È una lezione di Carlo Cecchi che ci portiamo dentro da sempre e che direi fa parte del nostro dna artistico.

Venendo invece propriamente alla lingua e alla scrittura, in Amore sembra che tu, prediligendo ancora una volta un registro fortemente astratto e, per semplificare, “assurdo”, sia arrivato ad un’ulteriore fase stilistica. A che punto ti senti come drammaturgo?

Mi si accosta spesso a certi grandi autori che amo e che in qualche modo hanno influito sulla mia scrittura. E certamente non disdegno questi rimandi a Beckett, Pinter, Kafka, Ionesco: sono drammaturghi e scrittori immensi. Ma credo ormai di possedere uno stile riconoscibile, un mio modo di comunicare. Non è un caso che i nostri spettacoli debuttino ogni tre anni. C’è un lungo tempo di maturazione. Altrimenti rischieremmo di ripeterci, di non cambiare mai. Inoltre, da tempo ho abbandonato il messinese dei primi testi. E anche questo è stato un cambiamento per me molto significativo.

Non mi resta che farti una domanda di rito: altri progetti dopo Amore?

Abbiamo in mente un altro tema su cui lavorare ma è prematuro parlarne. In questo momento siamo felici di Amore e ci godiamo il presente. Abbiamo già fissato una lunga tournée italiana e stiamo ricevendo una serie di inviti per numerose piazze estere (lo spettacolo è prodotto in collaborazione con Théâtre Garonne di Tolosa, ndr). Per ora ci accontentiamo. E ci sembra già un bel traguardo.

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