Una lunga scia di sangue
Politica della paura
L'uso politico della violenza e della paura si innesta sul conflitto tra chi vuole cogliere la globalizzazione come un'opportunità di nuovo benessere e chi la vuole usare come strumento di potere sulla società
La confusione delle immagini. La strage del 22 luglio presso il supermercato di Monaco è stata raccontata in una lunga diretta su Raitre. A parte le informazioni fornite dai corrispondenti, che erano poi quelle piuttosto asciutte della Polizia tedesca, che cosa ci insegna quella diretta? 1) Che mancavano le informazioni di contesto che aiutassero a ricondurre l’episodio ad una dimensione criminale psicotica non insolita e al contesto socio-culturale in cui poteva maturare, mentre abbondavano rinvii a improbabili ricorrenze esplicative. 2) Che le immagini vengono ripetute all’infinito nel tentativo di saturare lo spazio comunicativo e sottrarre audience ai social network, e ciò avviene senza adeguati commenti o informazioni per interpretare quelle immagini e contestualizzarle. In questo modo le immagini, esattamente come sui social network apparentemente girano a vuoto, in realtà diventano icone della paura. 3) Che il problema tutto politico della conduttrice, se la strage fosse o no riconducibile all’ISIS e quindi se la leadership della Cancelliera Merkel potesse essere messa in crisi, è rimasto al centro della trasmissione nonostante gli inviti alla prudenza, a partire proprio dalle dichiarazioni della Polizia.
Il servizio ha rivelato, suo malgrado, due problemi della massima importanza. Primo: i delitti più gravi sono in diminuzione nell’ultimo decennio, ma il giornalismo inseguitore dei social network ricercando l’aspetto orrifico delle immagini e delle notizie, trascura i dati oggettivi e non fornisce il contesto in cui si collocano. Secondo: l’uso delle immagini decontestualizzato rafforza l’impatto negativo della cronaca dell’orrore, che lascia nell’insipienza il pubblico maturo della tv e contribuisce a riempire di video i social network, dove rimbalzano confusa eccitazione e disinformazione nel pubblico giovane on line.
La cronaca non genera la paura ma, non approfondendo in modo diretto e sobrio la notizia e non ricercando il significato e il contesto in cui si collocano le immagini, essa fornisce il veicolo di propagazione alla paura. Lo fa non perché dà le informazioni in diretta, ma perché non le dà e il risultato è una paura da disinformazione e non da eccessiva informazione, come taluni credono guardando all’ammontare di ore di tv e internet digerite dal pubblico.
Violenza reale e insicurezza. Nel lungo periodo la tendenza alla riduzione dei delitti più gravi e della violenza che comportano è evidente secondo i dati Istat. Anche due delle forme più drammatiche e di maggiore impatto sociale, come gli omicidi per terrorismo e gli infanticidi sembrano ridursi in misura significativa, essendo comunque su ordini di grandezza assai limitati. Inoltre, sempre secondo i dati Istat, vi sono aree della criminalità minore che alimentano la percezione dell’aggravarsi della violenza: i furti nelle abitazioni sono aumentati dell’80% tra il 2006 e il 2014 e questo solo fatto spiega, probabilmente, larga parte della maggiore insicurezza di parte della popolazione in età matura. Altri tipi di delitto su quella stessa popolazione non hanno influenza, come nel caso dell’aggravarsi delle violazioni della proprietà intellettuale e delle frodi ed effrazioni di origine informatica: due tipici delitti da globalizzazione.
Dice il bel saggio di Raffaella Sette, Violenza e omicidio tra storia, tecnologia e cultura (Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, vol. III n. 3 vol. IV n. 1 sett. 2009, aprile 2010), che questi dati sembrano in linea con una visione del processo di cìvilizzazione di tipo evoluzionistico. Ma la stessa autrice ricorda che Norbert Elias, che ha sviluppato questa visione nel periodo tra le due guerre, a partire dagli anni Ottanta paventava il costante riprodursi di zone di pericolo dove i livelli di ostilità e di disgregazione risorgono a causa della caduta della capacità di autocensura della violenza sul piano individuale e collettivo. Questo rischio pone sotto pressione lo Stato che deve estendere il suo monopolio della forza in terreni nuovi dove mancano le regole e le convenzioni. Da queste difficoltà possono sorgere le tendenze verso uno Stato illiberale e verso politiche autoritarie. Tendenze ben note ai teorici del terrore.
Integrazione globale contro integralismo globale. La globalizzazione ha ricevuto una attenzione prevalentemente di tipo ideologico. La si contesta prevalentemente in nome di un impoverimento delle classi lavoratrici, di un depauperamento delle risorse naturali, di una perdita di identità culturale: si rifiutano per questo i processi culturali economici ed istituzionali dell’integrazione.
Occorre ricordare che la globalizzazione è la forma recente del processo di integrazione del sistema economico, sociale e culturale, in atto da secoli ed acceleratosi prima con le due guerre mondiali e poi con la diffusione dei media di massa, dei trasporti a basso costo e di internet.
Lo studio dell’OECD How was life? Global well beeing since 1820 (2014), smentisce le visioni catastrofiste sulla globalizzazione. Essa ha portato benessere, riduzione della povertà in misura impensabile fino a due decenni or sono, aumento della scolarizzazione, aumento degli interscambi culturali ed economici, con la sola eccezione dei temi ambientali dove il deterioramento della condizione del pianeta è gravissimo, ma lo sarebbe stato anche se le dinamiche demografiche non avessero incrociato la globalizzazione. Ma non è questo deterioramento a creare le tensioni e le violenze che attraversano la scena mondiale. È invece la crescita delle opportunità, offerta dalla globalizzazione, che crea quelle tensioni: è l’esclusione, anche solo parziale, da quelle opportunità –dovuta a ragioni individuali, sociali o politiche – che crea la frustrazione su cui la violenza attecchisce. Lo scontro è politico: il tentativo di afferrare quelle opportunità anima la politica della violenza.
Il terrorismo islamico rivendica un ruolo decisivo nella crisi dei regimi mediorientali ed arabi in particolare, imponendo una ideologia integralista, per impadronirsi delle risorse umane e petrolifere che hanno un prezzo nel mercato globale. Vuole una società integralista, che interrompa ogni processo di integrazione, vuole una società monolitica, ma la vuole globale: per questo si scontra con l’Occidente globale. Vuole disarticolare la società aperta per poi chiudere porte e finestre e realizzare la società integralista. Il terrorismo imbraccia le armi contro i processi di integrazione, usando gli strumenti che la stessa globalizzazione mette a disposizione: è così che internet, i media, i foreign fighters, le risorse finanziarie diventano armi globali, armi dell’integralismo contro i processi di integrazione. Accusa la globalizzazione come risultato dei processi di integrazione, ma è pronto a usare le armi e i linguaggi della globalizzazione: non ha inventato i filmati degli sgozzamenti, li ha copiati dagli snuff movies.
Ecco che appare il terreno dello scontro: chi piegherà a proprio favore la globalizzazione in atto, avrà un vantaggio sull’avversario. L’errore sarebbe ritrarsi intimiditi e frustrati. E’ il rischio dei populismi occidentali, che predicano il ritiro dalla globalizzazione a partire dalla contestazione degli impegni internazionali (Trump, Farage, nella foto, Salvini, Le Pen, Pegida…), nel tentativo di difendere le vecchie fonti -del tutto esaurite- di un benessere “locale” e di una identità culturale “nazionale” inesistente perché esistente comunque solo al plurale. Queste culture politiche nascondono con rumorosi slogan la propria rinuncia e con la propria impotenza lasciano il campo all’integralismo globale.
I risultati planetari dell’integrazione internazionale e l’impatto enorme, in positivo e in negativo, che essi hanno avuto sulle aspettative e sulle percezioni delle persone non sono stati colti nella loro dimensione dai governi e dalle istituzioni sovranazionali. E’ mancata la consapevolezza che stavano verificandosi cambiamenti più forti di quelli portati dalle due guerre mondiali, e che questo, in un contesto internazionale più fluido e policentrico, avrebbe creato divaricazioni culturali capaci di far saltare la coesione sociale, che ha una dimensione globale.
Occorre un impegno culturale e di educazione enorme per risalire questo versante e restituire visibilità e accessibilità ai valori positivi dell’integrazione: l’integrazione del sistema scolastico a livello internazionale, lo sviluppo del diritto allo studio e al lavoro soprattutto per le donne, l’armonizzazione internazionale del welfare sono risposte culturali e istituzionali che occorre dare a chi vuole impadronirsi – questa è la sfida – della globalizzazione e farne strumento di potere integralista violento, oppressivo.