Every beat of my heart, la poesia
Odissea al telaio
Il “Monologo di Penelope” scritto da Roberto Mussapi: racconto poetico del poema omerico condensato per due voci e un’unica interprete - Laura Marinoni - che lo ha recentemente interpretato al Monteverdi Festival
Ho scritto questo monologo a due voci (due voci della stessa attrice) per Laura Marinoni, che lo ha interpretato, con altri versi, a un festival monteverdiano svoltosi a Cremona il 18 giugno, giorno in cui ero impegnato a Milano con una mia lettura. Questo monologo, inedito e particolare, sarà pubblicato in un volume in uscita a settembre da Raffaelli editore, titolo: In scena. Monologhi in versi.
La trama del tempo distramata di notte
Monologo di Penelope
Per due voci in una sola persona
Prima voce – Allora si recarono felici sul luogo del letto antico
si coricarono nella grande stanza ombrosa.
Dopo che ebbero goduto del loro amore
i due sposi si misero a parlare, dolcemente, a lungo.
Lei gli raccontava le sofferenze nella dimora invasa
dalla turba odiosa dei Proci, che sgozzavano bestie,
buoi e montoni, e attingevano alle anfore molto vino,
e volevano lei, ma lei li tenne distanti
non dagli averi ma dalla sua persona
nessuno mai osò sfiorarle la spalla,
per vent’anni rimase alla reggia ad attendere il suo sposo.
Seconda voce – La trama del tempo distramata di notte
fu il mio segreto e la mia magia:
dissolvere, sciogliendone la trama, il tempo
e le sue conseguenze, invecchiamento,
sfiorire della bellezza, procedere verso la morte.
Questo accadde per il mio talento
e il sogno impresso nella mia bellezza,
rimanere identica fino al suo ritorno,
mentre fuori dalla mia stanza scorreva il tempo
con tutte sue glorie e rovine e l’incessante
angoscia dell’istante che muore fuggendo…
questo fu un incanto, l’incanto di Penelope,
fare d’amore una forza vivente
lottando, con le dita, ogni notte nel buio.
E mentre Odisseo vagava in mare, e i suoi incontri,
le isole oblianti, i lotofagi,
i mostri bestiali che precedono l’uomo,
e i piaceri nel letto di Calispo e di Circe,
e il suono acquatico delle grotte sommerse,
e i compagni che morivano affogando
e il viaggio illusorio nel regno dei morti,
io tramutavo tutto quella storia vera in un miraggio.
Di Elena mia cugina ho condiviso dalla nascita la bellezza,
ma anche il senso della bellezza e il suo scopo:
non perdersi, non abbandonarsi a ogni passione,
ma interrompendo il triste divenire,
serbarla nascosta e rilucente nel buio,
renderla con le mie dita schiava d’amore.
Il letto sull’albero di olivo è ancora intatto,
anche la linfa nel legno interruppe il suo corso,
rimandò la sua ascesa con quella del mio sangue.
Non era ingannare i Proci, difendermi, il mio scopo:
a Penelope non servono stratagemmi,
basta e avanza la sua presenza regale.
Mentre una parte di te si avventura nel mondo
nel brivido inebriante del triste divenire,
come in un’urna è custodita l’altra parte
l’istante eterno, il brivido attimico d’amore,
che è attesa, opera, lavorio incessante,
dita che il filo riga ora su ora,
l’amore è attesa, annullamento della trama, abbandonarsi
al tempo-non-tempo disteso e dilatato
tra il primo abbraccio e il ricongiungimento.
Prima voce – E Odisseo narrava ogni cosa, come in sogno,
e come aveva abbattuto Ciconi,
e come poi giunse alla terra dei Mangiatori di Loto,
che infonde oblio grigio e cancella memoria
e come sfuggì al canto delle Sirene che perde nell’abisso
e gli orrori del Ciclope che accecò punendolo
per lo scempio dei compagni che aveva divorato.
E come giunse da Eolo e fu accolto e congedato,
anche se il destino non concedeva ancora il ritorno:
di nuovo fu trascinato via dalla tempesta
che lo portava tra le alte grida di lamento sul mare pescoso.
E poi Telepilo, città dei Lestrigoni,
che distrussero le navi e uccisero tutti i suoi amici.
Solo lui, Odisseo, fuggì con la nave.
E poi le narrò dell’inganno di Circe e della sua astuzia,
e come scese con la nave nel regno muschioso di Ade
per consultare l’anima del tebano Tiresia,
e là vide tutti i compagni di guerra,
e l’ombra della madre che lo aveva allattato da piccolo.
E le raccontò delle voci delle Sirene che aveva udito
e delle rupi di Plancte e la tremenda Cariddi,
e le narrò di Scilla da cui non si fuggiva senza danni.
E come i compagni uccisero i buoi del Sole,
e Zeus piombando dall’alto colpì la nave con la folgore,
e ancora compagni valorosi morirono.
E solo lui, Odisseo, sfuggì alle cupe dee della morte.
E le narrò dell’isola di Ogigia,
della ninfa Calipso che lo tratteneva in grotte profonde
nutrendolo, volendolo come marito,
e pronta a farlo immortale e immune per sempre da vecchiaia,
e come non riuscì mai a persuaderlo.
E le narrò di come arrivò soffrendo
all’isola dei Feaci che lo adorarono
con tutto il cuore e lo accompagnarono con la nave in patria,
dandogli in abbondanza bronzo, oro e vesti.
Questo fu l’ultimo racconto di quella notte,
quando lo vinse infine il dolce sonno,
il sonno che scioglie le membra e dissolve le pene del cuore.
Seconda voce – La tela tessuta di giorno e distessuta di notte
non fu un inganno ai Proci, ma un sortilegio
e una sfida di maga al cieco divenire,
annullando ogni notte la tela tramata
ne cancellavo, o sospendevo la storia.
Il trucco durò per i Proci quattro anni:
chiedetevi perché una volta scoperta
per delazione della perfida ancella
non cambiò nulla, nessuno osò sfiorare Penelope.
Certo, raccontano, la moglie di Ulisse
non poteva non condividerne scaltrezza e acume,
ma questa è solo la verità apparente della storia.
Che fu tramata, questa sì, tramata
da quel disegno che muove le dita di una donna
nel buio della notte, per amore.
Che vuole dire non sottomettersi al tempo,
salvare con le mani il primo incanto.
E distessendo la tela, cancellando gli eventi
che avevo tessuto per lui, inconsapevole,
portavo nel regno del sogno ogni suo giorno,
lo sottraevo alla storia, ogni risveglio,
il mattino seguente, era per me e per lui come una nascita.
Ridevano Pisandro, Polibo, l’efferato Medonte,
gli avidi Antinoo e Eurimacio,
di questa donna che trascorreva il giorno
china al telaio, capace solo di tessere,
non era concesso loro intendere
che io ordivo la loro cieca esistenza,
da loro intatta, irraggiungibile:
e non sapevano che quanto a piene mani arraffavano,
carni, e orci di vino e tavole imbandite nella casa di Ulisse,
era soltanto il sacrificio richiesto, la mia offerta.
Per questo quando Ulisse tornò mi rivide giovane
come il giorno che salpando mi aveva lasciato,
intatta, salvata dall’amore che brucia il tempo.
E come io prevedevo lui se ne accorse,
al primo abbraccio dopo tanti anni,
sciogliendo tra le sue braccia il mio rito e l’offerta
e rinascendo, in me anche lui stesso.
Roberto Mussapi