Jolanda Bufalini
Fino al 27 novembre, 100 opere in mostra

Macro Memorie

Il Macro di Roma rende omaggio all'avanguardia artistica anni Sessanta: la pop art di Tano Festa, Franco Angeli e Mario Schifano. Una stagione feconda di relazioni tra nuovo e antico nel segno di una città da recuperare

Gran godimento al Macro di via Nizza dove sono esposte fino al 27 novembre 100 opere 1960-1967 (ma si potrebbe dire 1958-1968) degli artisti romani detti, con invenzione critico-giornalistica dell’epoca, “la scuola di piazza del popolo”, approssimazione ironica per quello che era piuttosto un gruppo di amici allora intorno ai 30 anni. Si incontravano da Rosati, il bar sopra il quale, al primo piano, era La Tartaruga, la galleria di Plinio De Martiis, affacciata sulla piazza. Ci si trovava lì, giorno e notte, fino a quando si sentivano ruggire i leoni dello zoo, a Villa Borghese,  per richiedere la colazione.

Roma Pop City è il titolo americaneggiante della mostra che fa storcere il naso a più d’uno, eppure ben motivato dal catalogo (Roma Pop City 1960-1967, Manfredi Edizioni 40 euro), appropriato. Gran godimento perché le opere di FrancoAngeli, Nanni Balestrini, Gianfranco Baruchello, Umberto Bignardi, Mario Ceroli, Claudio Cintoli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Sergio Lombardo, Francesco Lo Savio, Renato Mambor, Gino Marotta, Titina Maselli, Fabio Mauri, Pino Pascali, Luca Maria Patella, Mimmo Rotella, Mario Schifano, Cesare Tacchi, Giuseppe Uncini provengono, in gran parte, per l’esposizione curata in economia dagli esperti del Macro, da collezioni private e la loro visione è di solito preclusa a coloro, ai più ovviamente, che non frequentano le case dei collezionisti e del mondo artistico romano. Opere esposte in convivenza con quelle, alcune straordinarie, della collezione civica.

Roma Pop City 1Così, ad esempio, Tano Festa, Pianoforte (collezione privata) e Tano Festa, Omaggio a Rothko (Macro), Mario Ceroli, Mr muscolo (collezione privata) e Mario Ceroli Goldfinger Miss (Macro), Franco Angeli e Pino Pascali, U.S.A Army (Collezione Laureati-Briganti) e Pino Pascali, La gravida (Macro), Mimmo Rotella, Sua maestà la regina (collezione privata) e  Mimmo Rotella, A strappo deciso (Macro). Ma anche Camion, di Titina Maselli (Macro), Bambino solo, di Giosetta Fioroni, e Rockfeller o Renato e Paola di Sergio Lombardo, le opere su stoffa imbottita di Cesare Tacchi, il bosco naturale artificiale (i paesaggi) di Gino Marotta, il Colosseo nelle opere di Renato Mabor, (tutti provenienti da collezioni private). E, ricostruita per la prima volta dopo il 1968 all’Attico di Fabio Sargentini, Cinque bacoli da seta e un bozzolo di Pino Pascali.

Insieme al godimento, il discorso-percorso espositivo: «Protagonista assoluta – scrivono i curatori Claudio Crescentini, Costantino D’Orazio, Federica Pirani – è la città, Roma, con i suoi monumenti, le sue strade, i suoi scorci urbani, la grande cartellonistica … La città collegata alle nuove tecnologie industriali, produttive, costruttive, espressive e mediali». Sei le sezioni: Città schermata (schermo, cinetv, bandoni), Frammenti capitolini, Realismo di massa, Compagni Compagni (Vietnam e preludi sessantottini), Oltre l’icona (Pino Pascali), Film d’arte e documentari.

Roma Pop City 3Il focus su Roma fa parte della missione istituzionale del museo civico, la relazione non è estrinseca. Quello che viene fuori e ci fa ragionare sul presente, è la relazione dinamica degli artisti con la città. Produttiva di immaginario. Produttiva di interpretazione, di critica dei mutamenti, degli stravolgimenti in corso negli anni del boom. E, oggi, fortemente evocativa per noi baby boomers che di quei cambiamenti, dalla Tv alla pubblicità, alla espansione urbana, agli insediamenti industriali, al luna park e al villaggio olimpico, abbiamo intessuto l’infanzia, l’adolescenza intanto che andavamo alla scoperta della città e dei suoi scorci, delle sue pietre antiche. Ma il discorso che si dipana nella mostra del Macro, diversamente, per esempio, dal bel libro di Sandra Petrignani, Addio a Roma, che si nutre della città scomparsa, mette in luce la relazione che è contemporaneamente di critica e appropriazione vorace. Franco Angeli in occasione della mostra Frammenti capitolini (1964): «Roma, capitale d’Italia: città ministeriale barocca clericale, capitale politica cattolica cinematografica governativa: attori registi duchi conti assessori marchesi sottosegretari attrici produttori quotidiani fascisti ambasciatori  arrivisti vescovi cardinali seminaristi preti monache sacramenti, meta turistica …». Mario Schifano raccontò: «Andavamo nelle gallerie e vedevamo l’informale, uscivamo e vedevamo la città e questa ci interessava». Intervistato nel catalogo da Claudio Crescentini, Marco Fabiano e Federica Pirani, Achille Bonito Oliva fa un affresco di grande efficacia, dal quale emergono figure gigantesche come Carmelo Bene che «considero non un teatrante ma un artista totale». Che cosa era interessante negli anni Sessanta? «C’era una vitalità espansa, che corre attraverso tutte le competenze e gli specifici. Poi ci sono gli episodi che riguardano specialmente in via Veneto, il cinema. Ma diciamo che l’arte ha avuto in quegli anni un riconoscimento sociale da parte della città, una città come Roma che oggi usa dei parametri, se si può dire, scoraggianti». Parametri scoraggianti. Scoraggianti le letture stereotipate, le grettezze, i conformismi, gli accomodamenti, le solitudini, gli egoismi, i microinteressi da difendere con le unghie e con i denti. Bonito Oliva: Roma «difficilmente riconosce, misurando tutto con l’immortalità, con il Papa» … «Nell’arte e nella cultura Roma è stata un teatro che ha accolto le nostre messinscene»…  «Roma era effettivamente diventata in quel decennio non più solo e solo capitale d’Italia e Città del Vaticano, ma una città assolutamente cosmopolita che viveva di notte e di giorno, di arte e cultura».

La vexata quaestio del Pop risale già all’epoca. Nel catalogo è ristampata l’intervista a Maurizio Calvesi del 1990, in occasione della mostra al Palaexpò Roma anni 60 al di là della pittura. Lo storico e critico vi rievoca sia le problematiche di mercato, sia il gioco linguistico da lui ideato, «se non sapessimo che popolo sta per pioppo», fra piazza del popolo e pop. E i curatori della mostra del Macro risolvono anche loro con un gioco linguistico aggiungendo due parentesi: Po(polare). Non c’è dubbio che nella Roma cosmopolita dei Sixties c’è l’America e, ancor più, dal ’64, anno della Pop Art alla Biennale, “l’invasione”, la chiama Lorenza Trucchi. Quello che fin da allora non viene accettato, anzi respinto con veemenza, è il rapporto di filiazione, di discendenza. Tano Festa: «Mi dispiace per l’America che ha poca storia ma da noi popolare è la cappella Sistina». Sixties Chapel? (è capitato anche questo nei depliant turistici). Americani sì, la relazione esiste, e giganteggia Rothko. Ma il lavoro dei romani guarda ai classici (Carpaccio, Michelangelo, Botticelli), al futurismo (Balla, Boccioni, Malevich), alla Metafisica (De Chirico è lì, a due passi), a Mondrian.

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