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Le acrobazie di King
Re dei bestseller, Stephen King si cimenta con la forma breve raccogliendo in volume racconti editi e inediti, per lui quasi una sfida di perizia narrativa. Talento certo quello del giovane scrittore americano Gregg Hurwitz, autore di un thriller supertecnologico avvincente. Anche Joyce Carol Oates si muove con destrezza in un thriller psicologico
La missione – Questo giovane scrittore va a perdifiato. Ha inventato un meccanismo thriller supertecnologico, ricorrendo a una scrittura scattante. Ci pare strano che non sia ancora nelle nostre classifiche dei libri più venduti. Oltretutto il prezzo è basso. L’autore è Gregg Hurwitz, americano che vive a Los Angeles, e negli Usa ha ricevuto numerosi premi, anche in qualità di sceneggiatore e fumettista. Il romanzo in questione s’intitola Orphan X (De Agostini-Bookme, 348 pagine, 9,90 euro). La casa editrice di Novara da un po’ di tempo tiene d’occhio la narrativa per i cosiddetti young adults e sforna prodotti che dovrebbero proprio invogliare alla lettura quella (purtroppo larga) fascia di lettori molto deboli. C’è da dire che Orphan X è lettura godibile sia per i ventenni sia per chi ha i capelli che tendono al grigio. Il protagonista ha meno di trent’anni, è orfano (di qui il titolo), ed è stato addestrato da un’organizzazione segreta governativa (che sarà poi smantellata, almeno ufficialmente). Si chiama Evan Smoak e da adolescente smarrito ha ricevuto un rigorosissimo addestramento dal suo mentore Jack Johns (una copertura, ovviamente). Le prove cui Evan viene sottoposto sono durissime. L’obiettivo è tener sotto controllo il dolore, rispettare una serie di “comandamenti”, imparare tutte quelle cose che servono a una spia di altissimo livello. Evan padroneggia superbamente la tecnologia e ne fa uso spericolato. Nessuno, per esempio, riesce a tracciare le sue chiamate telefoniche: cambia spesso gestore (in ogni parte del mondo). Vive in un ampio attico di Los Angeles, dove il minimalismo e la tecnologia pro-sicurezza dominano, ma ha vari rifugi altrove. Cambia auto con disinvoltura. Nel palazzo dove abita per più tempo incontra vicini di casa curiosi, ai quali dice di occuparsi di forniture industriali. Tiene sotto il massimo controllo le emozioni (secondo uno dei “comandamenti”), ma in almeno due occasioni non gli riesce del tutto, pur sapendo che è cosa pericolosa.
Evan, uno dei tanti “orphan” dell’organizzazione finalizzata al bene, ha ricevuto il primo incarico a soli 17 anni. Il protagonista, che ogni tanto ricorda l’addestramento ricevuto, è una specie di giustiziere che protegge, spesso usando metodi sbrigativi e violenti, chi è vittima di soprusi. Prima di intervenire controlla minuziosamente, sia con apparati tecnologici sia con sopralluoghi prudentissimi, l’identità di chi lancia un “help”. In situazioni difficili applica una delle massime del poker: “Devi fare il gioco dell’altro, non il tuo”. I mezzi finanziari di cui dispone sono ingentissimi, tutti dietro il paravento inviolabile di banche o società off-shore. Nel romanzo inizia, proprio per aiutare chi a lui si rivolge, a entrare in un labirinto diabolico. Si accorgerà che, andando in soccorso dei deboli, un nemico, bravo almeno quanto lui, gli sta dando la caccia. Una scatola cinese dietro l’altra. Evan cade in agguati, ma ne intesse anche, rischia la vita ogni giorno, viene ferito quasi mortalmente ma si rialza, grazie alla sua abilità a cucire le ferite e alla meditazione yoga. Qualche piano sotto il suo appartamento vive un bambino, orfano di padre, che lo paragona a Batman. Evan si affeziona a lui, e lui e sua madre diventano il simbolo della vita normale. Alla quale ha dovuto rinunciare il giorno in cui incontrò Jack, il suo addestratore.
Alter ego – La settantenne americana Joyce Carol Oates, talvolta in odore di Premio Nobel, sforna un romanzo dietro l’altro. Stavolta si cimenta in un originale thriller: Jack deve morire, edito da il Saggiatore, 233 pagine, 19 euro. È la storia di Andrew J. Rush, autore di polizieschi che abita nel New Jersey. Vende milioni di copie ma ha il complesso di inferiorità nei confronti di Stephen King, assai più famoso e ricco di lui. Rush si rintana nel suo studio e scrive ogni giorno tante pagine. Vive con la moglie e ha figli che abitano per conto loro. Non contento dei ricavi letterari, s’inventa uno pseudonimo: Jack of Spades. Dietro a questo paravento editoriale sforna thriller a tinte forti di modestissima levatura letteraria. Jack è un suo segreto, anche se sua figlia, che insegna, si accorge, leggendone uno, che quella “spazzatura” contiene parallelismi molto singolari tra il protagonista e suo padre. In particolare evidenzia un episodio realmente accaduto nella prima parte di vita di Andrew Rush, ossia la morte del fratello minore, malamente precipitato da un trampolino. Era Andrew il colpevole oppure quel tocco sulla spalla del fratellino era del tuto innocente? L’episodio è sempre stato fonte di incubi per lo scrittore del New Jersey. La suspance, sempre articolata in tutto il romanzo, entra in scena quando un’anziana e frustrata scrittrice lo cita in tribunale per plagio e per molestie. Andrew disobbedisce al legale della sua casa editrice e, camuffato, segue l’udienza in tribunale. Il giudice, dopo la furiosa scenata della donna, sentenzia il non procedere. Rimane il fatto, e qui Joyce Carol Oates inserisce una buona dose di mistero, e le coincidenze diventano allarmanti. Il verosimile sfiora il vero e con esso s’intreccia: è questo singolare impasto la vera ossatura del suo romanzo. Poco alla volta lo pseudonimo Jack of Spades diventa il crudele alter ego dello scrittore. Il quale, con un inganno, si intrufolerà nella casa della sua accusatrice, che nel frattempo è ricoverata in una clinica. La vita di Rush è sconvolta, fino alla decisione (fin dove disattesa?) di uccidere la sua malefica ombra. Ma solo quella? L’epilogo è drammatico. L’autrice si muove con destrezza su vari registri psicologici.
Il “re” felice – E lui continua a scrivere. Stephen King ha radunato alcuni suoi racconti (alcuni inediti, altri no) e nella prefazione parla della sua felicità di scrittore. Sono in pochi al mondo, almeno tra i creativi, a essere allegri e ricchi come lui. Lassù, nel Maine, c’è un cervello che non smette di puntare la lente sulla realtà di ogni giorno e di ogni persona, decollando poi verso un cielo di paure, di fantasia, di incubi. King si svela ancora una volta soddisfatto di sé, con un’euforia incredibilmente giovanile. Tutto questo ne Il bazar dei brutti sogni, edito dalla Sperling&Kupfer (491 pagine, 19,90 euro). Nell’introduzione mette da parte la falsa modestia – ammesso che ce l’abbia – e spiega perché continua a scrivere racconti. In effetti – ma questo lo diciamo noi – il racconto è l’impresa più antieconomica per un narratore: ognuno, o quasi, potrebbe diventare un romanzo, breve o lungo che sia. Ecco il motivo addotto dal bestsellerista americano: «Lo faccio perché mi diverte, sono un intrattenitore nato. Per natura sono un romanziere… mi piacciono soprattutto i libri oceanici che coinvolgono profondamente lettore e autore, nei quali la narrativa ha l’occasione di diventare un mondo quasi reale. Quando ne azzecco uno, tra lettore e autore non è un flirt, ma un matrimonio». Sincero fino a sfiorare la sfrontatezza se si riflette sulla parola che usa, “matrimonio”. Entrando poi nel campo più tecnico della scrittura, King confessa di avere sempre apprezzato «la severa disciplina imposta dalle opere brevi di narrativa. I racconti richiedono una specie di perizia acrobatica che comporta tanta noiosa pratica… errori trascurabili in un romanzo diventano lampanti in storie più corte». King si è sempre compiaciuto di “sgobbare tantissimo”. E qui lo ripete: «È vietato battere la fiacca. È impossibile accrescere il proprio talento, che è innato, ma in genere si riesce a impedire che diminuisca».
Uno dei racconti migliori ci sembra essere Giù di corda, scritto in prima persona dal signor Franklin, un pubblicitario che da una settimana fa “sogni lucidi”. Vive con la moglie Ellen, alla quale lancia parole e frasi. E lei che cosa risponde? Ma il quesito vero che un lettore arguto si pone è il seguente: quando lei risponde? Sono vocali e consonanti che appartengono ai sogni del protagonista? Il portiere dello stabile, Carlo, lo avverte che alcuni condomini si lamentano per un nauseante odore. L’uomo, che ammette di non avere un fiuto buono, ipotizza la presenza di topi, ma al contempo dà l’impressione di non volere un’ispezione nel suo appartamento. Franklin, al ritorno dall’ufficio, chiede a Ellen: «Tesoro, sei sveglia? Ti senti un po’ meglio?». E pensa: «Probabilmente ho dimenticato di chiudere la porta della camera…». Così prosegue il racconto: «Entro in camera. Dalla porta vedo solo il ciuffo cotonoso dei capelli, e la sagoma del corpo sotto la trapunta. Quest’ultima è un po’ stropicciata, quindi deduco che Ellen si è alzata, magari solo per farsi un caffè, e poi si è rimessa a letto. È iniziato tutto lo scorso venerdì: al mio ritorno non respirava, e da allora ha dormito moltissimo». In poche pagine King cammina sull’esile filo dei funamboli che separa, nella nebbia mentale, realtà e sogni-incubo.