Al Napoli Teatro Festival Italia
La Medea buona
La Medea di Emma Dante, arricchita dalle musiche dei fratelli Mancuso, non è cattiva. È una donna il cui cuore è stato spezzato: ha subito un danno, e chi sopravvive a un danno diventa molto pericoloso
Reduce dal successo unanime di pubblico e di critica al Teatro des Bouffes du Nord di Parigi, Verso Medea di Emma Dante approda al Napoli Teatro Festival Italia, riscuotendo altrettanti consensi. Ai fratelli Enzo e Lorenzo Mancuso, grandi musici di tradizione sicula, l’onere di accompagnare lo spettatore nella città di Corinto, attraverso il loro canto a tenore e l’uso sapiente di strumenti antichi quali la ghironda, il saz baglama, oltre violino, harmonium e percussioni. Come nella migliore tradizione melodrammatica, il loro canto non solo da aria di uscita presenta il personaggio, ma diviene voce del sentimento di Medea. Un sentire misto di odio per l’amore e amore per l’odio che in sposalizio armonico compone dodecafonicamente il solo suono sul nome di Giasone. Giasone. L’uomo per il quale Medea ha tradito il proprio padre e abbandonato la propria terra. Giasone. L’uomo che invece non ha esitato a sua volta a tradirla contraendo nuove nozze con Glauce, figlia del re Creonte, per divenire nuovo re di Corinto.
La vendetta di Medea si compirà nel modo in cui è stata tramandata da Euripide; e poi da Seneca, Ovidio e Draconzio, con vesti velenosi per la nuova sposa e sterilità e solitudine per il traditore del suo cuore. Nota drammaturgica differenziale, e qui interessante e strategica della Dante, è che Medea si presenta incinta. Non ha bambini già grandi da uccidere – si pensi alla Medea versione cinematografica di Pier Paolo Pasolini in cui gli stessi sembravano addirittura acconsentire, comprendendone con pietà le motivazioni, all’insano gesto materno – ma porterà a termine la gravidanza; vorrà che Giasone veda il neonato vivo. Vorrà che Giasone veda il neonato morto, soffocato dagli stessi abbracci materni.
La nutrice di Medea diventa coro. Ma il coro è anche la gente di Corinto, ma soprattutto è e dà voce alla coscienza di Medea. Sono cinque donne dai corpi maschili e pelosi che aiuteranno Medea facendola partorire dietro una coperta a quadroni colorati che nelle loro mani diverrà per incanto figlio generato. Ma sono anche donne ‘elisabettiane’ che presentano la loro vera natura quando non esiteranno a divenire feroci maschi e giudici pronti ad ammonire e condannare gli assassinii di Medea, appellandola con l’unico aggettivo a lei più idoneo: cattiva.
No. La Medea di Emma Dante non è cattiva. È una donna il cui cuore è stato spezzato. È una donna che ha subito un danno, e chi sopravvive al danno, diventa molto pericoloso. È una donna alla quale è stato negato qualcosa che molte hanno; una donna che nella gestazione pare scorgere vendetta ma in realtà non vede il potere se non annesso al senso di libertà che da esso ne può conseguire. Libera, suo malgrado, dall’amato Giasone; da una terra a lei ostile; dal tradimento paterno; dal figlio adorato che le avrebbe rammentato sempre con chi generato e che soprattutto da solo non sarebbe mai bastato a ricomporle il cuore frantumato in mille cuori divenuti ora pugnali.
Il canto dei Mancuso diventa parola. La parola diventa ansimi e fisicità: onirica, violenta, visionaria, aggressiva e soprattutto barbarica nel senso di “origine” sottolineato coll’uso sapiente e la combustione dei dialetti napoletano e siciliano adottati. I corpi sudati dei protagonisti della tragedia riempiono l’intero spazio scenico. Giochi di luce (di Marcello D’Agostino) drappeggiano i fondali. Medea esce dagli inferi e lì fa ritorno. Il coro si scioglie. I Mancuso invocano Deus meus e chiudono in poiesis bellezza un sipario immaginario, che sempre nell’immaginario si era poco più di un’ora prima aperto sul grande cuore, adesso altrove, di Medea.
Euripide è stato l’innovatore della tragedia greca grazie ad un inedito intellettualismo, che non esclude una crisi del logos e un’esplorazione della passionalità. Emma Dante nella sua visione registica traduce il logos in fisicità e la fisicità in passionalità amorosa e vendicativa, ritualizzando il testo di Euripide e rendendolo più arcaico ancora con gli inni profani e sacri cantati dai fratelli Mancuso, per poi ri-modernizzandolo con le gesta mimate del coro in definitiva detronizzazione di Medea. Detronizzazione che rende la sacerdotessa della Colchide libera di ritornare alla sua natura barbarica e di lasciare quella borghese in cui Giasone – contraendo nozze per interesse sociale – stava facendola cadere.
La Medea di Emma Dante è dunque anche questo: racconto della moderna alienazione borghese, tragicamente ineluttabile.
Per gli attori in scena: Elena Borgogni, Medea; Carmine Maringola nel doppio ruolo di Giasone e Mariarca; Salvatore D’Onofrio in Creonte e Giuseppina; Sandro Maria Campagna, messaggero e Caterina; Roberto Galbo, Rosetta; Davide Celona, Mimma; due soli aggettivi: intensi e bravissimi.