Lettera dall'America
La famiglia americana
«We are one American family» ha ripetuto Obama ai funerali della strage di Dallas. Un appello disperato e drammatico all'unità e alla tolleranza in un paese infuocato dalle divisioni
Questa volta è stato diverso. Dopo l’ennesima uccisione di due neri, quasi in contemporanea, uno in Minnesota e uno in Louisiana da parte della polizia, il movimento Black lives matter ha deciso di tenere una manifestazione pacifica a Dallas, come in molte altre città degli Stati Uniti. Il motivo era quello di evidenziare le stragi di neri che si continuano a perpetrare in questo paese, soprattutto per mano della polizia. Ma la polizia che era alla manifestazione per mantenere l’ordine è stata proprio l’oggetto di una sparatoria mortale da parte di un giovane nero che voleva colpire più bianchi possibile. E ne ha uccisi 5. Dunque questa volta a differenza del passato c’è stata una reazione di un nero che ha risposto alla violenza con lo stesso tipo di violenza. Ha sparato e ha fatto una strage perché oltre ai 5 morti ha fatto anche 6 feriti ricoverati adesso in ospedale.
Si è continuato a ripetere che questa è la prova del fallimento della politica di Obama sulle questioni razziali in quanto durante la sua presidenza, invece di diminuire, i crimini razziali sono aumentati. Ma in realtà questo paese ha compiuto passi giganteschi a partire dalla sua nascita: ha vissuto la schiavitù e poi la segregazione fino a che nel 1964 c’è stata una legge sui diritti civili e nel 2008 il primo presidente nero. Tutto ciò non è stato indolore, però. Durante il periodo che va dal 1964 a oggi infatti, è rimasto un sottofondo strisciante di razzismo, verso una minoranza etnica che mai, nonostante le volenze compiute su molti dei suoi individui , si è ribellata in grandi numeri o ha minacciato ritorsioni. Nonostante il numero consistente di vittime da quel periodo a oggi.
Ebbene a Dallas questa volta c’è stata una risposta immediata. È stato un segnale inquietante, ma anche qualcosa da tenere presente. Questo gesto ovviamente spaventa molti e crea un senso di disagio e di ansia in un paese sconvolto in questi ultimi anni da un’ondata di estremismo politico radicale che ha portato a una polarizzazione sia nel campo istituzionale che in quello economico e culturale. Risultato di ciò sono stati per motivi molto diversi tra di loro e per valore delle persone in questione sia il fenomeno Trump che quello Sanders. Anche se quest’ultimo ha poi finito per dare il suo sostegno a Hillary come candidata democratica ufficiale alla presidenza degli Stati Uniti.
Dissento profondamente dall’affermazione sulla mala gestione da parte della presidenza Obama della questione razziale in quanto credo che l’attuale presidente abbia cercato con grande determinazione e pervicacia, durante ambedue i suoi mandati, di creare tra la comunità nera e quella bianca un ponte per porre termine alle ostilità palesi e a quelle ancora latenti. E soprattutto alla violenza. Specie a causa della facilità con cui si possono comprare le armi in questo paese. Lo ha fatto ogni volta che si è dovuto recare a portare conforto alle famiglie di coloro che erano stati uccisi dall’ insensato proliferare delle armi, bianchi o neri che fossero. Lo ha fatto quando ha speso parole di sostegno alle famigli dei neri i cui padri, figli, fratelli, mariti (in genere uomini) falcidiati dalla violenza endogena alla comunità o esogena, molto spesso per mano della polizia. Lo ha fatto quando ha condannato l’odio nei confronti dell’altro, fosse esso il nero o il musulmano o l’ispanico, o l’asiatico, o l’omosessuale. Sono state 11 le volte che si è dovuto recare a portare affetto e solidarietà alle famiglie di morti ammazzati. E sempre ha ripetuto come un mantra la necessità di convivere pacificamente sotto uno stesso tetto. Ha avuto parole dure contro la violenza, di profonda simpateticità per le vittime e le famiglie, ha perfino pianto, ha cercato di implementare leggi contro le armi, di proteggere le minoranze, politicamente, economicamente e culturalmente. Si è battuto, infatti, per risolvere i problemi dell’emigrazione, per alzare il salario minimo, per contrastare i privilegi. Non si può dire che in questo abbia deluso perché il suo segno distintivo è stato proprio quello di combattere il razzismo, l’omofobia, la misoginia. Riassumendo la paura dell’altro, del diverso, di quello più debole. Non poteva essere altrimenti.
E dunque forse chi troppo in fretta sposa la tesi del fallimento della sua politica razziale dovrebbe riflettere sul fatto che quando ci sono eventi che contraddicono decadi di pregiudizi e di intolleranza ci si deve sempre aspettare dei colpi di coda, spesso violenti. Il motivo è che coloro i quali non riescono a sconfiggere i pregiudizi dentro di sé si sentono impotenti a fermare la storia. E dunque usano il mezzo primitivo della violenza.
Il discorso di Obama al funerale dei poliziotti a Dallas è stato di portata epocale. Quello che è stato definito con il titolo The America I Know è stato paragonato da alcuni storici a I Have a Dream di Martin Luther King. Infatti si è basato tutto sulla necessità di unificare il paese invece di accentuarne la divisività. Una qualità che ha fatto grande l’America proprio in opposizione alle caratteristiche di volontà di potenza che invece vuole dargli Trump. Ha parlato della sofferenza capace di generare la perseveranza che forgia il carattere e quindi dà la speranza. Come a ricordare che dal dolore, e i neri ne hanno dovuto sopportare tanto, nasce la speranza che possa finire il clima di ostilità e si possa ricominciare. Pena la decadenza della democrazia. Ha detto che era stanco di parlare di questi temi, e stanco e rattristato è anche apparso, e che le parole non servono più. E ha citato il Vangelo secondo Giovanni, notoriamente quello più rivoluzionario, quello che dà enfasi all’azione e meno alle parole, raccomandando di eliminare i pregiudizi prima di tutto dalle nostre teste. Ricordando che secoli di discriminazione non si cancellano in un giorno. Ha detto inoltre che «nessuno di noi è innocente». Inclusa la polizia.
Anche se non si può generalizzare. Certo è che la gente di colore è presa più di mira dei bianchi dal sistema giudiziario: viene fermata più spesso, condannata con più facilita e a pene più lunghe , inclusa la pena di morte. E queste cose non si possono cancellare con poche proteste pacifiche. «Fa male sentirsi discriminati anche solo indirettamente». Obama ha continuato dicendo che spesso si chiede troppo alla polizia e troppo poco a noi stessi. Bisogna andare alla radice del pregiudizio, eliminare l’ignoranza, la povertà lottare contro il cinismo. «Bisogna aprire il cuore l’uno all’altro». Ha fatto trapelare i suoi dubbi che queste tragedie finiscano d’un tratto. Citando Ezechiele ha parlato però della trasformazione dei cuori di pietra in cuori di carne invitando il poliziotto a guardare il giovane nero sospetto con il cappuccio come a un figlio e quel ragazzo a vedere nel poliziotto un padre forse un po’ severo; a mettersi uno nei panni dell’altro. Ha parlato del movimento Black lives matter come qualcosa che non provoca divisioni. Anzi il contrario, perché evidenzia il dolore dei neri e con esso quello di una comunità e di un paese intero. E ha affermato più volte che «We are one American family» dove la gente si aiuta, dove si sconfiggono i pregiudizi e dove ci si batte per l’impossibile perché «That’s America I Know». Ed è anche l’immagine che pervade l’immaginario collettivo di tutti noi.