Pasquale Di Palmo
La voce del poeta: Giuseppe Conte

Il ribelle fedele

Da oggi ogni domenica un poeta risponde alle domande di Pasquale Di Palmo e regala un inedito ai nostri lettori. A inaugurare la serie Giuseppe Conte, che sa leggere il mito con gli occhi della modernità e la modernità con gli archetipi del mito. Lo fa in tutta la sua opera che ora si concentra sul mare…

Nella collana degli Oscar Mondadori escono le Poesie (1983-2015) di Giuseppe Conte (392 pagine, 22 euro) che raccolgono tutta la produzione in versi dell’autore ligure, con un’introduzione di Giorgio Ficara e una nota biografica e bibliografica a cura di Giulia Ricca. Il lettore ha così l’opportunità di misurarsi con una delle espressioni poetiche più rappresentative dagli anni Ottanta ai nostri giorni, comprendente raccolte come L’Oceano e il Ragazzo (1983), Le Stagioni (1988), Dialogo del poeta e del messaggero (1992), Canti d’Oriente e d’Occidente (1997) e Ferite e rifioriture (2006). Il volume inoltre è arricchito da una congrua sezione di inediti. Il percorso di tale «poetica ostinatamente antinovecentesca», come la definisce Ficara, si delinea così in tutte le sue sfaccettature e la figura di Conte, anarchica e ribelle a ogni convenzione, a ogni canone estetico troppo consolidato, si configura in tutta la sua forza «deliberatamente inattuale», mantenendosi fedele al mondo dei miti e della bellezza. Ma tali prerogative conservano tuttavia una spiccata valenza etica se lo stesso Conte avverte che «la scomparsa della poesia dalle società occidentali non testimonia una crisi della poesia quanto una patologia di quelle società stesse». E proprio in una delle risposte di questa intervista, corredata da due inediti dalla prossima silloge Non finirò di scrivere sul mare, l’autore sottolinea, quasi contrapponendosi alla «letteratura come menzogna» di manganelliana memoria, come la letteratura sia «ricerca (inesausta) di una verità».

Il mito, il viaggio, il mare sono alcuni degli archetipi che ricorrono insistentemente nella sua opera. Si può dire che la sua poesia sia rimasta sostanzialmente fedele a queste tematiche sin dall’esordio. Cosa può dirci al riguardo?
Sono rimasto fedele a una idea di poesia, a un progetto, a una visione del mondo. Il mito e la natura, tutti e due reintepretati, sono il fondamento della mia opera, sin dall’Ultimo aprile bianco e dall’Oceano e il Ragazzo. Il viaggio, mia passione da sempre, è diventato oggetto di un lungo libro in prosa, che è ancora cresciuto di dimensioni nella seconda edizione (Terre del mito, Mondadori 1991, Longanesi 2009). Il mare si è continuamente affacciato sia nella poesia sia nel romanzo, sino a diventare il centro di libri come Il terzo ufficiale, che, se non in Italia, almeno nelle traduzioni in Francia e in Grecia è stato considerato un romanzo della tradizione che va da Stevenson a Conrad. La fedeltà alle mie tematiche è parallela alla fedeltà ai miei sogni. Questo non vuol dire che non abbia, in poesia e in prosa, sperimentato stili e linguaggi diversi.

cop ConteSin da subito i critici più avveduti hanno ricondotto la sua poesia ai temi del mito e della mitografia, filtrata magari dalla lettura di studiosi come Hillmann, Eliade, Vernant, Dumézil, Corbin.
Certamente non ho una visione scolastica e classicistica del mito. Ho avvicinato il mito finiti gli studi e i miei anni di assistente universitario, mi sono convertito al pensiero e alla conoscenza mitica nello stesso momento in cui tornavo, dopo anni passati a Milano e Torino, a vivere sul mare. In quegli anni avvennero, ormai fuori dai doveri accademici, alcuni incontri fondamentali. Con Oswald Spengler, il cui Tramonto dell’Occidente lessi durante un intero inverno pagina dopo pagina, con James Hillman (che poi ho avuto la fortuna di conoscere di persona), con Mircea Eliade, con Joseph Campbell. Ho riletto il mito e il sacro a partire da loro. Con loro, ebbero importanza Vernant e Dumézil, ma anche Deleuze e Guattari e Norman Brown e Marcuse. Corbin lo incontrai nel mio cammino per comprendere l’Islam e fu capitale.

Nel 1995 lei è stato tra i fondatori del mitomodernismo. Ce ne può parlare?
Nel 1994 l’occupazione pacifica di Santa Croce a Firenze con Kemeny, Carifi e tanti altri e il messaggio per la rinascita della poesia italiana, nel 1995 il mitomodernismo, lanciato a Milano (con Zecchi, Kemeny, Carifi) al teatro Filodrammatici dove recentissimamente, il 20 aprile scorso, il mitomodernismo, con centinaia di apporti e adesioni, è tornato a fare sentire la sua voce. Non è un gruppo, forse non è neppure un movimento, ma una corrente di energia che ha promosso i temi capitali del mito e della bellezza quando tutti gli altri, che ora ne straparlano, li avversavano nel modo più feroce. Per me, mitomodernismo vuol dire leggere il mito con gli occhi della modernità, e la modernità con gli archetipi del mito, cosa che continuo a fare, in tutta la mia opera.

Tra i suoi autori di riferimento vi sono Walt Whitman e D. H. Lawrence che possono considerarsi fautori di una vitalità che sembra andare controcorrente rispetto ai canoni letterari imperanti. Che cosa la accomuna a questi scrittori?
Confesso che dei canoni imperanti me ne sono sempre fottuto. Tutto quello che preordina e impera non mi va bene. Un autore deve stabilire lui il suo canone, e se mai fondarne uno. Io sono considerato anarchico, ribelle, fuori schema e «fuori legge» (così addirittura su Sette del Corriere della Sera). In realtà ho messo in circolazione temi (natura, mito, bellezza, anima, eros, sacro, Islam) di cui sembrava venti anni fa impossibile e scorretto e avventuristico parlare. E ora? Avevo ragione io, per questo quasi nessuno me ne dà. Anche D.H. Lawrence aveva previsto tutto: alla grande, con una visione di una spaventosa attualità, prefigurando Henry Miller, la Beat Generation, la controcultura californiana, l’ecologismo, la rivoluzione sessuale. Io adoro Lawrence, sono andato a riverire la sua ombra sulle Montagne Rocciose. E adoro Whitman, che leggo come il fondatore di una visione carnale, solidale, in progress della democrazia che l’Occidente ha tradito.

Oltre che poeta lei ha pubblicato diversi romanzi. Qual è il rapporto che intercorre fra i suoi versi e la sua produzione narrativa?
Diciamo che il collante è il mito e la visione del mondo. Io ho cose da dire, detesto i calligrafi, i parolai, i linguaioli che affermano dittatorialmente che la letteratura è menzogna e linguaggio. Per me la letteratura è ricerca (inesausta) di una verità ed è energia spirituale. Nei romanzi passa quello che la poesia lirica (a me piace a dispetto di tanti la poesia lirica, ritmica, il canto dell’universo) non può contenere. Passa il mito che è il racconto originario, da cui tutto discende. Ho una visione architettonica e sinfonica del romanzo, per il quale, scriveva Eco, occorre una cosmologia. La poesia è il canto dell’universo, il romanzo il suo racconto. Non dimentichiamo mai che il più grande poeta francese prima di Baudelaire, Victor Hugo, disse che il protagonista dei Miserabili è l’infinito.

Nella sezione degli inediti che compare nelle Poesie figura una serie di composizioni ispirata al mare. Sarà il tema principale della sua prossima raccolta?
Sì, si intitolerà Non finirò di scrivere sul mare, per ora ho una quarantina di pagine buone, io taglio molto e mi autocensuro moltissimo, sento che ne scriverò presto altre quaranta e che il libro sarà pronto, non prima del 2018, se Dio vuole.

Sin dagli esordi la sua poesia incontrò l’approvazione e il sostegno di figure d’eccezione come quelle di Pietro Citati e Italo Calvino. Ci può ricordare il loro apporto nei suoi confronti?
Citati è stato il primo a mostrarmi alcune strade per capire l’Oriente, la mistica Sufi, e mi ha pubblicato nella Bur facendo dell’Oceano e il Ragazzo un successo anche editoriale. Calvino ha amato quel libro e ne ha parlato in un articolo che ora si può leggere nel “Meridiano” dei suoi saggi. È lui che mi ha aperto le porte per l’edizione francese e quella americana del libro. Tutti e due mi hanno onorato della loro amicizia, e ho passato ore deliziose in loro compagnia.

Cosa pensa della situazione poetica attuale?
Che la poesia italiana non ha niente da invidiare alla poesia di tutti gli altri paesi del mondo, compresi gli Stati Uniti, ma che i poeti italiani, che viaggiano poco, non lo sanno.

 

conte

Mare la tua misura è l’infinito

e l’abisso, l’alto e il basso

l’irrompere e il ritrarsi

il passare dalla bonaccia ai cavalloni

l’essere silenzioso come un esercito

di lucertole, rimbombante

come migliaia di tuoni.

Tu non sai cos’è la discrezione

conosci solo la sincerità

sei brutale come la verità

sguaiato come un ubriaco.

 

Tu di niente hai paura

né la terra né il fuoco

possono attaccarti in natura

e se ti avvelenano gli umani

rispondi con onde anomale

di maremoti e tsunami.

 

Non conosci la quiete e la rinuncia.

Chi ti ama lo sa.

Vedi le navi e vedi i naufragi

come facce della stessa realtà,

ti è indifferente la nostra vita

e ci dici che vale solo quando

si svergina e si rinnova amando

e cura la sua ferita

natale navigando,

solcandoti, mio mare.

 

***

Sono stato nel grembo della madre

nell’utero simile a un calice e a un papavero

come in un golfo tra due promontori

che proteggono dai venti di tramontana.

Come in un mare tiepido e specchiante

senza albe e senza tramonti

senza banchi di pesci e senza sale

senza alghe maree, onde

sono cresciuto così, animale

umano,

dal nulla ai primi gridi della vita.

 

E prima che tu piovessi sul pianeta

sono stato con te, mare, in una cometa

dalla coda di ghiaccio che volava

per lo spazio siderale

che oggi ci annega a pensarlo

buio, senza limiti, senza angoli

senza punti di riferimento

noi che abbiamo costruito il firmamento

e dato il nome a Sirio e a Betelgeuse.

Ero lì dentro te, mare, dove la vita

sognava già la prima nascita

di colonne di pulsanti meduse

di delfini che saltano, di fiori che si aprono,

di api, tigri e cavalli che galoppano

e portano sul dorso una bambina

nel vuoto più assoluto

ero lì dentro te, mare, che stavi muto

tutto in miriadi di gocce di brina

in attesa

di piovere, di fecondare.

Perché è questo nell’universo il tuo compito,

arido e amaro come sei,

Dio mare.

Giuseppe Conte
(Inediti da Non finirò di scrivere sul mare)

 

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