Un grande giornalista si racconta
I buchi neri del ‘900
«Il bambino nella neve» di Wlodek Goldkorn è un libro che trae la memoria dal suo ghetto: dalla Shoah a Varsavia dopo il Reich, dal socialismo sionista al "sogno italiano". Un diario per mantenere salde le tracce del passato
Il bambino nella neve di Wlodek Goldkorn (Feltrinelli, 202 pagine, 16 Euro) è un libro di viaggio, un reportage che riesce, come una piccola sonda laser, a penetrare nelle vene della storia e dei luoghi. La Polonia dove Goldkorn è vissuto fino a 16 anni: la terra che racchiude il grande vuoto, l’indicibile che ha segnato come vergogna, come male assoluto, l’Europa del XX secolo. E il fatto che i luoghi siano quelli, Katowice e Varsavia, Auschwitz, Belzec, Sobibor e Treblinka, Lodz e Kielce, è al tempo stesso essenziale, importantissimo, e, d’altra parte, del tutto secondario, poiché questo viaggio di ritorno è una ricostruzione del sé, dell’essere. Non una ricerca di identità, «l’essere ebreo – scrive ad un certo punto Goldkorn – è per me lo stesso che essere maschio. Lo sono indubitabilmente dalla nascita». Dunque non ricerca di identità, piuttosto la ricognizione di una appartenenza, attraversando la storia e le proprie contraddittorie esperienze, le scelte che abbiamo compiuto come individui morali e pensanti – alla fine è ciò che conta e ci definisce. Tutto per rispondere alla domanda non ancora formulata dei nipotini a cui prima o poi si dovrà raccontare l’irraccontabile e ai quale si vuole dire: scegli e, nello scegliere, mettiti nei panni dell’altro. Amare l’altro è forse troppo difficile ma chiedersi «come starei nei suoi panni» è sempre possibile.
È un viaggio di memoria che non vuole essere condivisa, poiché è la convinzione di Goldkorn, la memoria è parziale ed è, anche, invenzione, è atto politico. Così, anche, nella parte finale del libro, dedicata alla visita dei campi di sterminio, con una lettura fortemente critica del museo di Auschwitz, poiché il realismo che lo ha ispirata si dimostra inadeguato. L’autore non lo fa, ma viene in mente, a questo proposito, quanto invece si sia dimostrata adeguata la cultura architettonica italiana nell’elaborare la memoria alle Fosse Ardeatine.
Mi è capitato di incontrare Wlodek Goldkorn nel periodo che considero l’età dell’oro della nostra generazione di giornalisti, quando le dittature crollavano, prima quelle di destra e poi quelle comuniste, facendoci sentire testimoni e partecipi di eventi fortemente auspicati. Ne ho conservato il ricordo di una squisita gentilezza, rara nella nostra categoria, piuttosto tendente a una rappresentazione retorica più alta del giusto.
Ora, leggendo Il bambino nella neve, sembra di aver trovato la chiave di quella squisitezza. Wlodek è nato da genitori ebrei polacchi, che si salvarono fra i pochi della loro famiglia perché, comunisti, fuggirono nel 1939 in Unione Sovietica. Altri superstiti, come la tragica figura della zia Chaitele, hanno attraversato, nel frattempo, quell’indicibile che, lentamente, emerge dal racconto.
Una infanzia felice, in un bel palazzo dove anche le altre famiglie sono comuniste e, per metà, ebree; in quel tempo breve che fece sperare la Polonia in un nuovo assetto, nel quale i 300.000 ebrei polacchi sopravvissuti potessero ricostruire il paese insieme agli altri. Nell’edificio, durante l’occupazione nazista, si erano sistemati ufficiali delle SS e della Gestapo. Così il piccolo Goldkorn giocava fra le gambe di tavoli con la targhetta “proprietà del Terzo Reich”, mangiava in scodelle con lo stampiglio germanico. La qualità migliore del privilegio è non sapere di averlo e, quell’appartenenza inconsapevole alla nomenklatura comunista del dopoguerra, offre piccoli privilegi materiali e grandi privilegi spirituali: accesso ai libri e alle informazioni, ai centri di cultura ebraica, la scuola laica, l’arte, una famiglia in cui a tavola si parla dei problemi del mondo, genitori che vivono la loro scelta comunista con libertà, come aspirazione alla giustizia, ma sufficientemente avvertiti da guardare con ironia alle rigidità dell’ortodossia.
L’antisemitismo popolare, dopo la sconfitto del nazismo, non è scomparso, si nutre anche del senso di colpa di chi ha approfittato, usa gli oggetti, vive nelle case di chi non è tornato o anche di chi, con sorpresa, ritorna. Ma è percepito come un residuo di altri tempi, non ha il supporto del potere. Dura poco. Le cose cambiano rapidamente dopo la guerra dei Sei giorni, in una direzione inquietante, fino alla cacciata, nel 1968, di quel che restava degli ebrei di nazionalità polacca. «Di questa vicenda in Italia si sa poco, se ne era parlato pochissimo all’epoca degli eventi e, per quanto mi riguarda, quel disinteresse rimane un marchio di vergogna per l’intera sinistra, soprattutto per chi, allora e dopo, è stato militante del partito comunista fratello del Partito polacco. Era impressionante vedere con che naturalezza i comunisti avessero adottato il linguaggio dei fascisti di anteguerra».
A 16 anni Wlodek parte da Varsavia insieme ai genitori e alla sorella. In quel momento abbraccia giocoforza il sionismo. Con la ferocia che solo gli adolescenti possono avere, grida alla madre «avete sbagliato tutto nelle vostre scelte». Ma in Israele sperimenta l’arroganza dei sabra, giovani forti e belli che chiamavano i sopravvissuti, quelli con il numero tatuato sul braccio “saponette” e chiamavano lui, piccolo e magretto, ”Biafra”. Ha sperimentato, da militare, come è facile diventare carnefici, quando un superiore gli ordina di minacciare con l’arma un bambino arabo solo e spaventato. Rifiuta, rischiando la corte marziale. Sceglie l’Italia, «visto che non potevo vivere dove sono nato perché non scegliere il paese più bello del mondo?», ma torna ad essere polacco nell’unico modo in cui può, una volta che le autorità gli hanno tolto la cittadinanza: collegandosi al movimento democratico degli anni Ottanta. È grazie a questa scelta che incontra Marek Edelman, comandante della rivolta del ghetto di Varsavia. Gli eroi del ghetto. Quelli con cui aveva potuto identificarsi da ragazzo, che gli consentono di non accettare quell’espressione sentita tante volte: “come pecore al macello”, «frase dal suono sinistro di cui non riesco a liberarmi». Considera Marek Edelman il suo maestro. «Edelman era un socialista che non rifuggiva dall’utopia ma si misurava con la vita reale di ogni giorno. Per Marek la vita era qui e ora, e l’azione, qualunque azione, aveva senso se portava un immediato beneficio, sia pur minimo». Anche nel ghetto di Varsavia in rivolta. Anche nella Sarajevo sotto assedio degli anni Novanta. Anche nei barconi che sbarcano a Lampedusa. «È comodo pensare di essere vittima e poi pranzare in famiglia, scrivere su giornali, fare viaggi esotici. Marek mi ha aiutato a capire che non ero vittima ma soggetto della storia. Le vittime sono solo i morti». La Shoah non è spiegabile, non è razionalizzabile, se c’è un senso nell’esercizio della memoria è quello «di stare dalla parte degli oppressi».
«Si parla molto della seconda generazione, intendo i figli dei superstiti. Ma diciamolo, in quella definizione c’è un piccolo abuso. Noi, la Shoah, per nostra immensa fortuna non l’abbiamo sperimentata. Non l’abbiamo toccata con mano. Non abbiamo patito la fame né provato la paura che ogni giorno si portava addosso chi doveva nascondersi per sopravvivere. Non siamo stati rinchiusi nei ghetti e prigionieri nei lager. Non risentiamo gli effetti ugualmente? Sì, li risentiamo: però non in quanto vittime ma per la sensazione del vuoto»… «Quel vuoto va riempito con una sostanza, un misto di emozioni e razionalità che chiamiamo memoria. Salvo il fatto che la memoria è un’invenzione che ognuno si costruisce come vuole. Chi per preservare un narcisistico dolore e chi invece pensando che serva per scegliere. Per stare dalla parte degli umiliati, di coloro cui viene negata la dignità umana e che hanno sete di giustizia. La memoria non è né può essere condivisa perché è uno strumento politico e una scelta esistenziale».
È chiaro da che parte si collochi Goldkorn ed è spiegata quella gentilezza, quella dolcezza, di cui dicevo all’inizio, che ha l’imprinting nelle aspirazioni alla giustizia dei suoi genitori, nel Bund, il partito degli ebrei socialisti in massima parte uccisi nelle camere a gas, in cui Edelman aveva maturato il suo socialismo umanitario, alla cui storia Goldkorn si appassiona.