Pier Mario Fasanotti
Un libro di Ponte alle Grazie

Elena e Claudel

“Il romanzo del cuore e del corpo” di Philippe Claudel è una narrazione quasi ottocentesca, piana e complessa allo stesso tempo. E proprio per questo modernissima

È pur vero che oggi lo slogan-minaccia “il romanzo è morto” circola meno frequentemente, tuttavia chi si interessa di narrativa continua a porsi domande. Giuste domande, visto che la storia della letteratura è costellata di cambiamenti, alcuni dei quali di grande rilievo. A me personalmente (ma non solo a me, ci mancherebbe!) viene il seguente interrogativo: in questi tempi si può scrivere un romanzo in maniera diversa? Ossia in modo ancora ottocentesco oppure lontano da quell’andamento lessicale povero e sincopato che pare che le stesse case editrici esigano per vendere più copie? Una probabile ma brillantissima risposta me l’ha fornita la lettura dell’ultimo romanzo di Philippe Claudel, francese di Dombasie-sur-Meurthe, nato nel 1962, che oltre a essere narratore è accademico e regista. La sua fama è esplosa a livello internazionale con il romanzo Le anime grigie che nel 2003 ha vinto il Premio Renaudot ed è stato “tradotto” in un film della Warner Bros (regista: Yves Angelo). Passando alla sua ultima produzione letteraria, che si intitola Il romanzo del cuore e del corpo, edito da Ponte alle Grazie (152 pag., 14,50 euro), si può affermare che è un riuscito intreccio tra narrazione pura e riflessioni. Queste ultime riguardano i rapporti sentimentali o amorosi, il tempo, il sogno, il desiderio, l’amicizia.

L’autore è molto attento alla parola scritta, tanto è vero che a essa ricorre (a pag. 132) quando esamina l’esistenza: «La nostra vita è tutto meno che una figura lineare. Somiglia semmai all’unico esemplare di un libro, per alcuni di noi composto di poche pagine soltanto, linde e lisce, ricoperte da una scrittura diligente e precisa, per altri di un numero più consistente di fogli, pieni di correzioni e di pentimenti. Ogni pagina corrisponde a un momento della nostra esistenza e soprattutto a colei o colui che siamo stati in quel momento, e che non siamo più, e che guardiamo…». Claudel, con una superba perizia, parte da un avvenimento, per esempio la donna che il protagonista (un regista di medio successo) sbircia alla finestra di fronte, e s’inoltra in considerazioni o conversazioni su temi “alti”. La donna della finestra, Elena, riesce a incontrarla. È una ricercatrice, un’antropologa. Lo scambio di frasi ha un andamento socratico. Dato che l’io narrante soffre per la morte del suo grande amico Eugène (ed è questo il nucleo duro del libro), produttore cinematografico, a Elena in camicie bianco chiede “se la malattia, quando ci colpisce, può essere considerata come una porta che noi apriamo alla morte, intenzionalmente o no» e se noi «la morte la invitiamo in qualche modo a invaderci, a insediarsi in noi…».

philippe claudel il romanzo del cuore e del corpoL’affascinante e giovane Elena spiega in modo cristallino il rapporto tra mente e corpo, insistendo su «un amaro senso di dissociazione, come all’interno di un rapporto amoroso che, dopo essere stato idilliaco, si degrada». In modo più facilmente tassonomico, la ricercatrice spiega che nei nostri primi anni di vita il corpo ci affascina e ci spaventa nello stesso tempo, per poi arrivare in brevissimo tempo un “corpo amico”. Finite le fasi della crescita, ossia dell’adolescenza, il corpo «si fa dimenticare», insomma non ce ne curiamo. Ma in caso di malattie precoci come l’anoressia, l’obesità eccetera, il corpo diventa “ostile”. In genere, però, una volta raggiunta l’età adulta e per una ventina d’anni, viviamo con un “corpo amico”, tale da non intralciarci più che tanto, anzi poco. Con gli anni comincerà a darci “segni di tradimento” e «la sua ingratitudine ci affligge». La sequenza è questa: corpo ostile, poi avverso, sofferente, nemico, e infine perso. Tutte queste tappe attestano la supremazia che il corpo – ovvero il corpo che decade – prende sullo spirito. Rimedi? Nessuno. Semmai stratagemmi di natura estetica, grotteschi o comici talvolta, in ogni caso non influenti sulla percezione che noi abbiamo delle nostre ossa e carni.

A questo punto Claudel fa dire a Elena: «Ai giorni nostri si cerca a ogni costo di morire belli».  Il protagonista diventerà amante di Elena, sempre con il cruccio (mai risolto) della differenza d’età, di una «distorsione temporale». L’autore dà prova di scarti coraggiosi, senza però spezzare il filo narrativo, marchiato dal lutto per la morte dell’amico e dall’idea del suo inevitabile futuro di vecchio o di malato. Tanto è vero che, spiazzando il lettore fin dalle primissime pagine, racconta di un’insolita usanza degli abitanti dell’arcipelago indonesiano. I Toraja, che abitano ne l’isola di Sulawesi, realizzano un incavo nel tronco di un albero maestoso e lì depongono un neonato morto. A poco a poco il legno ingloba l’esserino e, crescendo, lo innalza al cielo con un ritmo lento e dolcissimo.  Il regista poi ricorda gli incontri con Eugène nelle brasserie parigine. Parlano di tutto, di cose profonde e di cose banali. Paragonando un romanzo dell’argentino Adolfo Bioy Casares (L’invenzione di Morel) a ciò che scrisse Ovidio, rammentano un passo di Marcel Proust quando Odette afferma: «E dire che ho buttato anni della mia vita, che ho desiderato morire, che ho speso il mio amore più grande per una donna che non mi piaceva, che non era il mio tipo!».

Il regista narrante non a caso ha girato un film intitolato Pas mon genre, in quella città “magnetica e singolarmente umana” che è Lisbona. Oppure riflettono sulla definizione che Pascal ha dato del cuore degli uomini: “cavo e pieno di lordura”. Oppure sulla “sperimentazione della vita. Il protagonista, sempre sull’onda  punteggiata di interrogativi sul tempo, talvolta si rifugia nella casa natia, in campagna, e dorme nel suo letto di bambino. Con l’ex moglie Florence (risposatasi) della quale non smette d’essere amante, seguendo la convinzione secondo cui «ci si incrocia molto, ci si abbraccia poco», si restituisce a se stesso e tenta di superare «l’avanzata quotidianità, l’assuefazione a noi stessi», fonte di malessere.  È tenero con Florence e dimentica il camuffamento di sé che opera con Elena. Tanto è vero che quando ha tra le braccia la ricercatrice, pensa all’ex moglie e «a tutte le carezze che avevo posato sul corpo di lei, che il tempo aveva reso più scivoloso, lo aveva stancato, ma di una stanchezza gioiosa che me lo faceva amare di più via via che gli anni passavano». Struggenti sono poi i paragrafi dedicati alla madre, che vive assente in una casa di riposo.

Ecco, a me pare che questo romanzo sia nuovo, per merito proprio di quel frullatore nel quale pone eventi, ricordi, citazioni, e ricca vita interiore.

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