A proposito di “Per le strade della Vergine”
Ceronetti in fuga
Guido Ceronetti continua la sua invettiva isolata contro l'Italia, la sua inumanità, la sua inanità, la sua volgarità. Un rosario dolente e ripetitivo, che alle volte sfiora la banalità (e non quella del male)
Intanto, sembra difficile che Guido Ceronetti abbia dedicato “trenta e più anni di saltuaria stesura” a Per le strade della Vergine (Adelphi, 278 pagine, 20 Euro), perché questo diario comincia nel gennaio del 1988 e siamo al 2016, no? Poi, da Ceronetti ci si può aspettare di tutto, anche che lui, le sue giornate, sappia descriverle in anticipo, che il suo passaggio terrestre sia una profezia che non può che auto-avverarsi, eh. È anche vero, però, che ciò che possiamo aspettarci non è altro che l’usuale e minuzioso ricamo a filo nero che, da decenni, egli va depositando attorno a noi – mai creduto che la variabilità sia indice di chissà che, se non della noia di sé dell’autore, a volte. Perciò, ben venga il solito Ceronetti, che affida alla carta una decina d’anni della propria vita, fino all’aprile del 1998.
Pagine un po’ faticose, queste, di carattere paratattico e nominale, nelle quali si avverte, più che nelle altre, numerose opere dell’autore, qualche rischio di maniera: i tempi di Albergo Italia sono lontani (anche se non così tanto, se si pensa al contenuto del diario e non alla presente pubblicazione), e non è nemmeno un viaggio, questo, quanto una fuga. Chi non viene voglia di continuare a incontrare, però, lungo tutti questi pellegrinaggi, finisce per essere lo stesso Ceronetti, al quale, spesso, basta nominare, affinché sul creato visibile si estenda lo schifo, quel sentimento salvifico che differenzierebbe l’autore dalla legione degli insensibili: “L’unico segreto che degli altri arriviamo a penetrare un poco è il vuoto che hanno in testa, la loro assenza dal pensiero, la loro orfanezza di consistenza mentale”. Una fuga in Italia, dall’Italia: “Roma, dirne tutto il peggio che si può è ancora poco. Ormai tutti sentono il peso del mostro sul respiro. Appena messo piede, voglia di fuggirne e di non tornarci più”. Altro giro, altra città: “Una vera orripilazione, non goyesca, di merda, è Firenze, sudicia oltre ogni limite, di turismo, di droga, di piombo, di rumore, una brutta bestia chimerica urbana di fango putrido da cui emergono incongrue cupole”. Quello di Ceronetti è un Paese dal quale si vuole e non si può scappare, e scendere al Sud non fa da tregua, anzi: “Uscire da Firenze come da una galera. (Viaggio orrendo, tutto occupato da barbari meridionali, nessuno che mi ceda il posto neppure per qualche minuto, popoli senza civiltà, egoisti lerci). Il Sud: la massima riserva nazionale di disumanizzazione giovanile, la maggiore industria nazionale della Vittima”.
Il fatto è che questo schifo è piuttosto facile, o lo è diventato, si è facilitato, nel corso dei decenni, e scatta così, senza tentennamenti, in automatico: “Liceo M. di Roma. Ora di uscita. Umanità già segnata dal nulla…”. A quanti è capitato di pensarlo, osservando le generazioni successive alla propria… “Ragazzi dei due sessi con le teste rase, o semirase, scatole vuote in movimento. Con quel che li aspetta, il nulla endocranico è la migliore difesa. Chi dentro ha qualcosa si spezzerà prima. Un generico barlume è già vulnerabilità, debolezza, via d’entrata del morso della tenebra”. Tutto molto vero, o molto falso – la variazione dovrebbe dipendere da chi la sorte ci mette davanti –, tutto molto facile, addirittura gratuito. “Da loro usciva una specie di urlìo fetido, bocche come fenditure di un suolo marcio”: viene quasi la curiosità di andare a interrogare i ragazzi, per ribaltare l’accusa e permettere anche a loro di esprimere, con pari creatività d’immagini, la loro opinione su Ceronetti, quei ragazzi che “ridono senza ragione, freneticamente, hanno sguardi di ubriachi. È come passeggiare nel cortile di un istituto per deficienti”. Di nuovo, innumerevoli saranno state le volte in cui ci siamo trovati a condividere osservazioni del genere: “È sera di sabato, tutto fermenta orribilmente, bande di giovani senza volto né gangheri, le loro voci sono peggio dei motori e dei clacson, incessantemente il buio vomita facce su facce senza realtà umana… lemuri…”. Poi, però, abbiamo resistito e non abbiamo scritto un rigo.
Forse, una forma più severa aiuterebbe, perché il salto ininterrotto dall’appunto quotidiano all’aforisma definitivo rende la lettura un tour de force estenuante e poco remunerativo, e permetterebbe anche di superare la sensazione della sopravvenuta indistinguibilità dei libri di Ceronetti, il cui protagonista è così di successo che non può che funzionare, sempre, di fronte a qualsiasi epifenomeno della Caduta. Optare per la forma dell’aforisma e lasciar perdere il diario? In tal caso, bisognerà produrre sentenze un po’ più appuntite di questa, però: “Quel che c’è di più prospero, nella società del benessere, è il malessere”. Diversamente, si viene a perdere ogni pretesa conoscitiva, tanto che tutto sembra lo stesso, ogni volto un muso, la corsa di un bambino il trascinarsi di un malato.
“Mi vedo riflesso nella vita idiota degli altri e mi vergogno da non poterne più. È vergogna vivere in questo modo, mangiare e crepare, guadagnare denaro e spenderlo, e peggio di tutto procreare. Sono felice di non aver avuto figli, li avrei visti sguazzare in una simile miseria di vita”: Ceronetti dovrebbe rendersi conto che, così, è esposto alla possibilità di essere imitato, quando non sbeffeggiato, perché quello che apparecchia è un meccanismo a vincere del quale l’unico padrone è lui, che ha inevitabilmente ragione, che tiene il banco delle scommesse sul peggio, requisendo tutta la posta in gioco, ogni volta. Il mondo non può che rispondere al nostro schifo con il proprio, come a comando, di fronte a uno sguardo tanto impietoso. Peccato che il giudizio personale non sia quello universale e che càpiti di notare che certe clemenze nei confronti di sé stessi non vengano, poi, elargite ed estese. Il giudice implacabile sembra, alla fine, uno che non perdona agli altri quelle colpe che, con minor scrupolo, non nota nei propri comportamenti: prima, nella passeggiata, avverte “odori di urina fortissimi”, cioè il prodotto dell’aggirarsi di quegli umani nauseabondi, ma bastano ventotto pagine e piscia, proprio lui, “contro un uscio, amichevolmente”, e non sarà l’unica volta – ecco, la nostra voglia di fare conoscenza con il proprietario di quell’uscio e di verificare la reciproca amicizia. Che succederebbe a Ceronetti, se incontrasse un altro Ceronetti? Come farebbero a riconoscersi, nel caso e nel caos umano?
Un certo tono canagliesco sarebbe anche simpatico, se non andasse a darsi sfogo con chi il tempo presente si è già premurato di rimuovere dal proprio orizzonte culturale, perché inservibile e non riducibile al medio canone e che così viene salutato: “Moravia nei necrologi: giudicato maestro, educatore incomparabile, sommo artista, sommità in tutto. Mancava di genio, di stile, di pensiero, di pudore, di simpatia umana, era anche brutto”. Sorprenderà colui che si fermi di fronte al motteggiare ceronettiano il suo antileopardismo: “pesante armatura medioevale, lingua con polvere di secoli…”, quella del recanatese, il quale “ha cessato di fare luce. Ci sono poeti che si esauriscono come pile elettriche. È una poesia che non possiamo più utilizzare perché troppa povera di mistero, di energia magica. È un illuminista, dunque non illuminato”. (Quanti dubbi restano sull’illuminismo di Leopardi, nonostante una tale assertività? Tanti). Io vedo il rispetto del copione, invece: (uno come) Cioran è funzionale al disegno ceronettiano, ma Leopardi è renitente a qualsiasi stilizzazione e non va bene, di lui non fa che restare “fuori” qualcosa, qualcosa che non si presta e non si piega alla riduzione. Se uno volesse “ceronettizzare” le Operette morali, resterebbe fuori l’Elogio degli uccelli, per esempio, che non permette la creazione di un personaggio a tutto tondo, una commercializzazione letteraria priva di spigoli.
“La fondamentale spietatezza e ottusità delle donne si rivela nella mancanza di rimorsi per aver partorito esseri umani. Di tutto arrivano a pentirsi, di questo mai”: ma sarà il caso di prendere sul serio Ceronetti, di farlo sempre? I frequentissimi incontri e appuntamenti femminili di questi dieci anni, e l’intenerimento conseguente, in che rapporto stanno con aforismi del genere? Le donne che curano Ceronetti di dove hanno tratto la propria eccezionalità? Le vezzeggiate Laurina, Chiarina… Chi sono e chi è che muove queste angeliche guaritrici? Che cosa, insomma, se non la ricerca del tonfo, dello scoppio, regola il ritmo invincibile del calamaio dell’autore? E non è questa una logica mediatica altrettanto deprecabile di quella televisiva, se dà luogo a un’umanità amputata delle proprie (vane) speranze, perché il personaggio che si è voluto stilizzare non è in grado di riceverle e mostrarle? Ah: il libro è quasi un capolavoro, certo, se ci si mette a raschiare e si lasciano in campo le sole forze che hanno la meglio e la peggio, il cancro e la vita futura, se si rintraccia la storia di Guido e di Michèle e si bada a loro due, ai segni evidenti della vittoria del tumore, a quelli più timidi della resistenza dell’amore e del dolore, quando Ceronetti lascia perdere sé stesso per un po’, e si dedica all’unica sconfitta che conta, non quella di una civiltà, ma quella di un uomo e di una donna.