Sabino Caronia
Da “Vita nuova” a “Il libro di sabbia”

Borges e Beatrice

Il vero fulcro dell’interesse dello scrittore argentino studioso di Dante è la relazione del poeta con la donna amata che mai davvero lo ricambiò e che la morte rese per sempre inaccessibile. Così l’ultima incarnazione della Beatrice dantesca è la Beatriz Frost del racconto “El Congreso”

La mattina del 14 luglio 1986 al numero 29 della Grand Rue di Ginevra moriva Jorge Luis Borges. Sulla sua tomba al Cimitero di Plain Palais la citazione in islandese della Völsunga Saga che fa da epigrafe al racconto “Ulrica” di Il libro di Sabbia: Hann tekr sverthit Gram ok / leggr i methaltheira bert («Prese la sua spada Gram e / mise tra i due il metallo nudo»). È la spada della castità volontaria, la spada definitiva la cui freddezza ormai più niente può riscaldare, la spada della morte. Molte donne ci sono state nella vita di Borges: Haidée Lange, Estela Canto, Susana Bombal, Victoria Ocampo, Alicia Jurado, María Esther Vázquez, Elsa Astate Millan, sua moglie dal 1967 al 1970, e finalmente Marìa Kodama, sposata per procura in Paraguay. Nella sezione intitolata “Museo” del suo libro più autobiografico, L’Artefice, si legge Le regret d’Héraclite: «Io che tanti uomini fui non sono mai stato / quello tra le cui braccia languiva Matilde Urbach». In proposito Alberto Manguel nel recente Con Borges scrive che qui c’è una sorta di raffronto fra Borges e il suo alter ego, l’amico Adolfo Bioy Casares, bello, ricco e sportivo come Borges non era. E certo Borges a differenza dell’altro era più propenso all’innamoramento poetico che alla passione travolgente.

Il tema dell’amicizia tra Dante e Virgilio è, a giudizio di Borges, uno dei più interessanti della Commedia, come risulta dai Nove saggi danteschi. Borges sottolinea certi dettagli psicologici. Dalle labbra di Virgilio Dante apprende che quegli non entrerà mai in cielo; immediatamente lo appella maestro e signore sia per dimostrare che quella confessione non sminuisce il suo affetto sia perché sapendolo perduto lo ama ancora di più. Virgilio sbianca in viso entrando nel primo cerchio dell’abisso; Dante imputa alla paura quel pallore. Virgilio afferma che gli deriva dalla compassione, e che egli è uno dei reprobi («E di questi cotai son io medesmo»). Dante per dissimulare l’orrore di tale affermazione, o per esprimere la sua pietà, prodiga titoli reverenziali: «Dimmi maestro mio, dimmi segnore». Soprattutto interessante è la conclusione dell’analisi che Borges fa del canto IV dell’Inferno: «In questo punto della Commedia, Omero, Orazio, Ovidio e Lucano sono proiezioni o rappresentazioni di Dante, che si sapeva non inferiore a quei grandi, in atto o in potenza. Sono tipi di ciò che già era Dante per se stesso, e presumibilmente sarebbe stato per gli altri: un famoso poeta. Sono grandi ombre venerate che accolgono Dante nel loro conclave: ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera, / sì ch’io fui sesto fra cotanto senno. Sono forme dell’incipiente sogno di Dante, appena slegate dal sognatore. Parlano interminabilmente di letteratura (che altro possono fare?). Hanno letto l’Iliade o la Farsaglia o scrivono la Commedia; sono magistrali nell’esercizio della loro arte, e tuttavia si trovano nell’Inferno perché li dimentica Beatrice».

Ecco dunque il vero fulcro dell’interesse di Borges: Dante e Beatrice. Borges sulla scia di Attilio Momigliano vede in Beatrice «la linea maestra della biografia di Dante». È evidente l’identificazione autobiografica con Dante e Beatrice e il significato attribuito a quel «viaggio sciamanico», in spirito e in corpo, da «Amor mi mosse…» (Inf., II, 72) fino a «L’Amor che move il sole e l’altre stelle» (Par., XXXIII, 145). In Conversazioni Borges risponde a Richard Burgin che lo intervista: «Certo l’amore che muove il sole e le altre stelle, perché Dante dà un senso teologico anche all’amore». Nel saggio dantesco che si può considerare come l’ideale introduzione a tutti gli altri e che non a caso apparve da solo per primo in Altre Inquisizioni, “L’incontro in un sogno”, Borges, analizzando i canti XXVIII e XXIX del Purgatorio, nota tra l’altro: «Curiosamente osserva Theóphil Spóerri: “Senza dubbio lo stesso Dante aveva previsto diversamente quell’incontro. Nulla indica nelle pagine precedenti che l’aspettava la peggior umiliazione della sua vita”».

Dante e BeatriceE conclude: «Innamorarsi significa creare una religione il cui dio è fallibile. Che Dante abbia professato per Beatrice un’adorazione idolatrica è una verità che non è possibile contraddire; che essa una volta si burlò di lui e un’altra lo disprezzò sono fatti che registra la Vita nuova. […] Dante, morta Beatrice, persa per sempre Beatrice, giocò con la finzione di incontrarla, per mitigare la propria tristezza; io ritengo che edificò la triplice architettura del suo poema per interpolarvi quell’incontro. Gli avvenne allora ciò che suole avvenire nei sogni, macchiandoli di tristi ostacoli. Tale fu il caso di Dante. Rifiutato per sempre da Beatrice, sognò di Beatrice, ma la sognò severissima, ma la sognò inaccessibile, ma la sognò su un carro tirato da un leone che era un uccello e che era tutto uccello o tutto leone quando gli occhi di Beatrice lo aspettavano (Purg. XXXI 121). Tali fatti possono prefigurare un incubo: questo si fissa e si dilata nel Canto seguente. […] Infinitamente esistette Beatrice per Dante. Dante pochissimo, forse nulla, per Beatrice; tutti noi propendiamo per pietà, per venerazione, a dimenticare questa compassionevole discordia indimenticabile per Dante. Leggo e rileggo i casi del suo illusorio incontro e penso a due amanti che l’Alighieri sognò nell’uragano del secondo cerchio e che sono emblemi oscuri, anche se egli non lo comprese o non lo volle, di quella felicità che non ottenne. Penso a Francesca e a Paolo, uniti per sempre nel suo Inferno (“questi, che mai da me non fia diviso…”). Con spaventoso amore, con ansia, con ammirazione, con invidia».

L’accento batte sull’«adorazione idolatrica» di Dante per Beatrice, e sull’invidia per quell’unione di Francesca con Paolo che neanche l’Inferno riesce a dividere («questi che mai da me non fia diviso»).

Il punto di arrivo dell’analisi critica di Borges è il saggio “L’ultimo sorriso di Beatrice”, ove, prendendo spunto dai versi 91-93 («Così orai; e quella, sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi; / poi si tornò all’etterna fontana»), è analizzato il canto XXXI del Paradiso: «Come interpretare quanto precede? Gli allegoristi ci dicono: la ragione (Virgilio) è uno strumento per raggiungere la fede; la fede (Beatrice), uno strumento per raggiungere la divinità; entrambe si perdono, una volta raggiunto lo scopo. La spiegazione, come avrà avvertito il lettore, non è meno impeccabile che frigida; da questo misero schema non sono mai usciti quei versi. […] Soffermiamoci su un fatto incontrovertibile, un solo fatto umilissimo: la scena è stata immaginata da Dante. Per noi è molto reale; per lui lo fu meno. (La realtà, per lui, era che prima la vita e poi la morte gli avevano strappato Beatrice). Assente per sempre da Beatrice, solo e forse umiliato, immaginò la scena per immaginare che stava con lei. Sfortunatamente per lui, felicemente per i secoli che l’avrebbero letto, la coscienza che quell’incontro era immaginario deformò la visione. Da qui le circostanze atroci, tanto più infernali, è chiaro, in quanto avvengono nell’Empireo: la scomparsa di Beatrice, il vecchio che ne prende il posto, la sua brusca elevazione alla Rosa, la fugacità del sorriso e dello sguardo, il volgersi eterno del volto. Nelle parole traspare l’orrore: come parea si riferisce a lontana ma contamina sorrise, e così Longfellow poté tradurre nella sua versione del 1867: “Thus I implored; and she, so far away, / Smiled as it seemed, and looked once more / at me”. Anche “etterna” sembra contaminare “si tornò”».

Quello che soprattutto interessa dei saggi danteschi è il loro valore di commento dell’opera creativa di Borges. Non a caso è stato giustamente sottolineato dalla critica a proposito di El Aleph che il racconto precede e ha influenzato l’articolo. Quello per Beatriz Elena Viterbo è per Borges, come per Dante, un amore doppiamente impossibile. Come la Beatrice dantesca è sposata con Bardi e morta, così la Beatrix borgesiana è infedele e morta. In una nota per l’edizione americana dell’Aleph Borges riconosce che Beatriz Viterbo «è esistita veramente ed io ero perdutamente innamorato di lei. Ho scritto il racconto dopo la sua morte». Sigmund Freud in Il disagio della civiltà scriveva: «L’amore per la bellezza sembra un perfetto esempio di pulsione inibita nella meta». Sulla sua scia Borges, richiamandosi al modello dantesco, considera la letteratura come risarcimento di uno scacco subito. L’ultima incarnazione della Beatrice dantesca è Beatriz Frost di “El Congreso”.

Scrive Emir Rodriguez Monegal a proposito de Il libro di sabbia: «C’è solo un argomento nuovo: lo splendore dell’amore fisico, che nelle sue opere precedenti Borges si era rifiutato di trattare esplicitamente. Allusioni al sesso si potevano trovare naturalmente nelle poesie e anche in alcuni racconti e saggi, ma erano sempre sprezzanti. Ora invece il vecchio guru pubblica un racconto su una ragazza norvegese che si dà dolcemente a un perplesso e riconoscente argentino, e nella labirintica storia intitolata “Il congresso” inserisce una versione piuttosto hemingwayana del godimento erotico. La dimensione erotica non era mai veramente mancata nell’opera di Borges. È sempre nascosta, mascherata o dislocata. Avendo più di settant’anni Borges si è finalmente convinto ad ammettere per iscritto la validità dei sogni erotici. Naturalmente il fatto che in “Il congresso” (con un gioco di parole che allude all’atto sessuale) il nome della ragazza è così scoraggiante (si chiama Beatriz Frost) mette in guardia il lettore sulle intenzioni di Borges. La Beatrice originale, come è noto, non amava Dante e non acconsentì mai a nessuna forma di intimità che non fosse un formale saluto nelle strade di Firenze. Frost (vuol dire “gelo” in inglese) non è un nome che si possa associare al calore della passione. Chiamando la protagonista Beatriz Frost Borges allude alla squisita tortura, al calore e al gelo insiti in quel sogno di estasi carnale».

Leggiamo: «Oh notti, oh condiviso tiepido buio, oh l’amore che scorre nell’ombra come un fiume segreto, oh quell’istante della felicità in cui ciascuno è tutti e due, oh l’innocenza e il candore della gioia, oh l’unione in cui ci perdevamo per perderci poi nel sonno, oh i primi chiarori del giorno e io a contemplarla!» E ancora: «Niente mi faceva tanto male quanto il pensiero che parallelamente alla mia vita Beatrice avrebbe vissuto la sua, minuto per minuto e notte per notte». Il racconto procede fino al risolutivo olocausto («Ogni tanti secoli bisogna bruciare la Biblioteca di Alessandria»), fino all’esperienza di quella notte cosmica che ha come equivalente «l’atto sessuale», una esperienza che si può credere di ritrovare talvolta «nell’amore».

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