Giuseppe Giglio
A proposito de “La prova del bianco”

Un diario in versi

Tra aforisma, epigramma e micro-racconto Anna Vasta punta la sua nitida lente di ingrandimento sulla vita, sul mondo, sull’uomo: «Scriviamo non per annullare la distanza che ci separa dagli altri, ma per prenderne coscienza»

Di Anna Vasta, di questa graffiante e dilemmatica narratrice in versi (capace di far sentire tutto anche in un frammento, nessun frammento rimanendo isolato) sempre a colloquio con i poeti ed il quotidiano, della sua poesia lontana dalle sirene novecentesche della complicazione e dell’ermetismo e vicina agli uomini ed alle cose, mi è già capitato di dire e scrivere: da Di un fantasma e di mari (Prova d’Autore, 2011) a Cieli violati (Edizioni Ensemble, 2013), le ultime due raccolte di versi. Che si possono benissimo leggere come i più recenti capitoli di un romanzo esistenziale in divenire, che la Vasta va da anni scrivendo: fin dal 1999, quando uscì La curva del cielo (Amadeus Editore). E proprio questo suo verseggiare diretto e onesto, cui non mancano il sapore dell’epigramma ed il tono del pamphlet, mi faceva pensare che prima o poi la Vasta avrebbe tirato fuori un diario in pubblico: quale naturale corollario di un’indefessa volontà di scivolare dentro l’oscurità del reale, ad allungarvi uno sguardo obliquo di antica esperienza.

La prova del biancoEd eccolo, quel diario: La prova del bianco, appena uscito nell’elegante veste editoriale de Le Farfalle, e con un’empatica bandella di Paolo Manganaro. Un libretto smilzo, ma ad alta temperatura etica, nel quale un insaziabile pensiero (che da tanti incerti approdi sempre riparte) innerva l’aforisma, l’epigramma, il micro-racconto: per dire della poesia, che in mano alla Vasta diventa una nitida lente di ingrandimento sulla vita, sul mondo, sull’uomo. E questa lente cerca (per quanto davanti a nodi complessi e intricati, non di rado) la spontanea complicità  del lettore: cui subito ricorda che «Gli uomini apprendono di sé dalla letteratura», e che «Scriviamo non per annullare la distanza che ci separa dagli altri, ma per prenderne coscienza». Lo sa bene, la Vasta. Lei che tiene sempre sul comodino le parole di Giacomo Leopardi e quelle di Wisława Szymborska. Lei che – senza convinzioni e con molti dubbi – non dubita minimamente del fatto che «il poeta è un predatore. In primis della propria vita», e che «una poesia che non comunica, che non getta ponti per raggiungere il lettore, una poesia senza riscontri, non può dirsi poesia». E se molte volte «gli uomini le voltano le spalle come fanno con la verità», e pur vero che «la poesia ha molto della preghiera», e che per quanto essa, la poesia, sfugga ad ogni definizione, resta tuttavia necessaria: come un corrimano cui aggrapparsi. «Non sarà la bellezza a salvare il mondo. Ma gli uomini a salvarla dal mondo», dice la Vasta. E se fosse possibile attribuire un colore, alla bellezza, lei è sicura che «Malgrado tutto, il giallo dei limoni è incontenibile».

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