Al Napoli teatro Festival Italia
St/ll & Godot
“St/ll” di Shiro Takatani mescola tutti i generi del teatro giapponese tradizionale per arrivare a una sintesi spettacolare che richiama, per noi occidentali, l'essenzialità di Beckett
St/ll di Shiro Takatani è stato il secondo, attesissimo appuntamento con il teatro internazionale fortemente voluto da Franco Dragone per la nona edizione del Napoli Teatro Festival Italia. Chi si aspettava di vedere teatro giapponese tradizionale o danza delle geishe, nonostante il nome di Takatani richiamasse alla più sofisticata tecnica ed avanguardia artistica, non è rimasto deluso poiché quello che ha visto difficilmente riuscirà non solo a dimenticare ma a ritrovare in Italia. D’altronde, si sa, il Giappone è già terra di umanoidi.
Teatro Politeama stracolmo. Sul palco una lunga tavola posta in verticale apparecchiata con piatti, posate, bicchieri, metronomi e una mela rossa. Dall’alto scende tenuta da due fili in ferro una telecamera che – sempre in verticale come suole essere lo stile della pittura giapponese – riprende e ingrandisce sul maxischermo tutti gli oggetti esposti sul tavolo, entrando nei dettagli più invisibili agli occhi umani. Sedute una di fronte all’altra due donne, figure esili, eleganti, in accollati abiti neri, pranzano e cenano senza cibo, a tempo, compiendo in un sincronismo perfetto gli stessi movimenti. In realtà, l’una specchio dell’altra, mentre altri due attori cominciano a sparecchiare, spostando di volta in volta le dame al tavolo, fino al momento non del ‘cha no yu’, conosciuto in Occidente come cerimonia del tè, rito sociale e spirituale praticato in Giappone, ma del moderno e laico caffè.
Il palco comincia a riempirsi d’acqua. E proprio l’acqua sarà grande protagonista di uno spettacolo che indaga i mille significati della parola “silenzio” che, qualora si taccia o si proferisca, eraclitonianamente tutto scorre, fino all’abisso. E poi banchi di nebbia. E poi buio. E poi, forse, di nuovo la luce. Forse.
In poco più di un’ora di performance poche le parole enunciate in giapponese che durano quanto il tempo in vita di un fiammifero acceso: lo scrittore Alfred Birnbaum è partito ed ha scandagliato Anassagora: «Όψις αδήλων τα φαινόμεν», “Le cose che si vedono sono l’aspetto visibile di quelle che non si vedono“. Da questa frammento, Takatani ha creato il suo poema epico e visivo.
Ma entriamo nei dettagli. Sminuzziamoli, ingrandendoli, esattamente come richiede lo stesso Takatani di fare allo spettatore e cioè considerare il palco come l’incontro tra il micro e il macrocosmo e porre esso stesso come anello di congiunzione con l’infinito che viene a crearsi. St/ll parte, si ispira e supera quelli che sono i tre generi nazionali sul quale è fondato tutto il teatro giapponese. Del teatro del Nō, che tradotto significa «abilità», Takatani conserva la lentezza dei movimenti e della grazia spartana. L’uso tipico della maschera è sostituito dal volto dell’attore stesso, immobile, statico, privo di qualsiasi espressione, anche durante i movimenti. La musica, composta dal genio Ryūichi Sakamoto e da Marihiko Hara e Takuta Minami, sfrutta una scala tonale limitata e presenta lunghi passaggi ripetitivi intervallati da impulsi di frequenza, in stile “glitch”, ossia costruita sugli “errori” prodotti dalle apparecchiature elettroniche e gli stridii, fischi e distorsioni, fungono a mo’ di tamburi per indurre la trance, mentre il pianoforte evoca la discesa degli spiriti di contro ai kakegoe, ossia i Bit, che invitano gli dei a manifestarsi. Il sound crea ed amplifica la bidimensionalità: un suono vicino produce frequenze acute; viceversa, un suono lontano ne produce di gravi. Il soundtrack è composto su frequenze in assonanza con il riverbero dell’acqua. Suono e immagine divengono in scena una figura a forma di prisma che, sfaccettato, si compone e decompone nello sguardo dello spettatore.
Per il tema dell’acqua, Takatani riprende il genere Kabuki che deriva dalle danze eseguite sulle rive del fiume Kamo a Kyoto. La parola è formata da tre diversi ideogrammi che significa letteralmente “essere fuori dall’ordinario”. E le performance sono beckettiane, alla ricerca del senso nel non senso. Ecco allora la parola scandirsi in sillabe, volare come piuma al vento, annegare in una tomba d’acqua. Di richiamo anche il Bunraku o teatro delle marionette. Qui i corpi degli attori si sostituiscono a quelli in argilla e il burattinaio diviene la macchina da presa che al suo passaggio sui loro corpi, dà ad essi l’input a muoversi, mostrandone così i più impercettibili movimenti.
La musica è costante. Arriva da più punti della sala. Sembra uscire da sotto le poltroncine. Siamo immersi nel flusso di suoni che scandiscono e battono movimenti e sentimenti degli attori/ marionette. In realtà questi corpi divengono haiku, ossia componimenti poetici.
Ne è un esempio la danza in cui i corpi in carne ed ossa sulla scena dialogano con le silhouettes dietro lo schermo, che ne richiamano l’andatura; o, ancora, quando gli oggetti che hanno abitato la fisicamente la scena – posate, libri, sedie – cadono, in immagini ormai private di materialità, dallo schermo, al limite della meraviglia in cui un canto tradizionale giapponese accompagna le due figure, una di donna e l’altra maschile, in una griglia geometrica di luci che calano dall’alto sulla scena, illuminandola secondo pulsazioni sul modello di un’onda, che conferisce alla scena l’andamento di una respirazione.
Quello creato da Takatani non è più uno spazio scenico, bensì uno spazio affettivo in cui lo spettatore che pur non riesce a comprendere tutto ciò che vede e ascolta, resta ipnotizzato ed è proprio qui che ciò che non si vede – ritornando ad Anassagora – diventa visibile. Al cuore, come avrebbe dettoAntoine de Saint-Exupéry. Ecco allora la scena finale della danzatrice nella nebbia che col suo corpo trasforma le cose in cose, ma ogni forma ‘in sentimento’, è un continuo divenire. Nulla è per sempre. Tutto si trasforma. Tutto scorre. Proprio come l’acqua.
Il messaggio artistico di Shiro Takatani è espresso con sensibilità e spaventosa tecnica: il nostro sguardo deve abituarsi a cercare l’altrove, consapevole che la visione meravigliosa che impareremo a vedere resterà una fiammella viva e luminosa fino alla fine. Fino alla nostra fine.
Molti noti “artisti” hanno lasciato la sala a metà dello spettacolo. Il confronto è per loro deleterio.