Ancora su “La piuma del Simorgh”
Ritorno al principio
Generazione e novità, perpetuazione e metamorfosi. Xanadu, Marco Polo, Bisanzio e il silenzio di Maria. Nella nuova raccolta di Roberto Mussapi, l'immacolata concezione del genere umano trova compimento. E domani a Milano un evento tra i quadri e le installazioni luminose di Marco Nereo Rotelli
La piuma del Simorgh (Mondadori, 101 pagine, 18 euro) è la nuova silloge di Roberto Mussapi. «Simorgh – è scritto nelle note dell’autore – era, secondo la mitologia persiana, l’uccello che viveva sull’albero dei semi, da cui erano generate le sementi di tutte le piante selvatiche, posizionato accanto all’albero dell’immortalità». Il Simorgh è, dunque, un segno di generazione e di novità, di perpetuazione e di metamorfosi. È il simbolo concreto del moto alterno dell’esistenza, di uno sgusciare tra la fine e gli inizi, trovando nel raccordo della conclusione le madri dell’essere. La lirica mimetica e teatrale, tipica del poeta cuneese, raggiunge qui una sua misura e una sua cristallizzazione, modulando perfettamente le lunghezze e gli spasmi, le asperità e le levigatezze, nell’incessante ricerca di un vagito primordiale, tempo prima del tempo, tempo del fanciullo e tempo a se stesso fanciullo, indagine quasi feroce nel campo dell’innocenza («il deserto forse fu creato/ per rendere infallibile il miraggio»).
(Su La piuma del Simorgh vedi anche https://www.succedeoggi.it/wordpress2016/04/lorigine-e-il-bagliore/).
Se è vero che la poesia ha una sua direzione e dedizione, essa è appunto il luogo della purezza, l’incoercibile tensione a lasciare intonso il creato, a non lordarsi e non lordare con io e sventure dell’io ciò che è stato offerto nella gratuità. Ricambiare, invece, la gratuità con gratuità, fino a trasformarsi radicalmente in gratuità. Per raggiungere tale trasfigurazione, però, c’è bisogno di un viaggio a ritroso. «Questo è un tempo di rinascita, io sento/ in ogni battito del mio cuore un mutamento/ in qualche cosa di inusitato e strano». Mussapi (nella foto) cita Rod Stewart e un mottetto di Montale che cita Shakespeare. È inusitato ciò che un tempo ero, la mia esistenza di prima, del prima. «La genesi avvenne nel principio e persevera./ Aiutaci a perpetuarla, riviverla vera e santa,/risveglia il principio in questo oscuro presente». Il passaggio all’oltre è qui inteso come un eterno ritorno alla fanciullezza: «Fu un attimo felice la mia morte./ Ora lei non deludeva il mio corpo, scomparendo,/ ma lo prendeva in sé, a brandelli/ di me bambino, di me adolescente,/ lei mi faceva carne, oltre, finalmente».
In Parola e genesi il fondamentale tema dell’origine si mescola alla potenza del logos, il linguaggio nel momento della sua nascita, come verità e volontà di verità: «[…] ogni lettera ha i lineamenti di un volto/ apparso da un balcone, e poi svanito./ O quanto è dolce fissare allora/ quella che fu la sua voce, la persona/ che ora passata o ancora vivente ti accompagna./ Le parole di colpo sono alle tue spalle,/ ti baciano, accarezzano/ quello che tu eri stato quando apparve/ quel volto, la sua storia. […] Tu, fibra della mia vita prenatale,/ ascoltami, dentro di me mentre ne stai uscendo,/ potrò toccarti nella gloria della poesia,/ voce che cerco di rievocare,/ ritornerai domani, sarai mia?». La gloria della poesia, celebrata nell’accorato incontro di figure amiche del calibro di Wole Soyinka e Yves Bonnefoy, effigia e prefigura la gloria dei corpi («Ho conosciuto la lenta erosione che imprime il tempo/ e l’improvvisa rinascita al servizio del tempo./ Non una rivelazione, ma il sospetto/ che esista solo una resurrezione incessante»).
È sempre aperta la porta verso est, porta d’origine, alba dei mondi, in direzione di una nuova, più giovane umanità. La porta a est – rievocata da Xanadu, Marco Polo, Venezia, Bisanzio, il Simorgh stesso, l’eterno femminino – è il contenuto medesimo del principio. Adolescenza, inizio, mattino, est, Cina vogliono dire l’identico: principio. A esso, senza indugio, bisogna tornare, viaggiando nella coerenza di un intimo ricordo. Da qui si dipana il gusto per l’apocrifo e per il sincretico, per l’esotico, il lontano, lo spezzato, l’«Oltremare», il sogno che riaffiora e afferma maggiore realtà del reale, il chiaro sbiadito, lo splendente piovigginoso, il vetro appannato della conoscenza. Ma da tale bruciante fulgore esce fuori la figura più nobile e tersa del creato, che è personificazione stessa del generare: Maria, essere sublime, questa gloriosa donna del sabato, immortalata dal poeta in versi commoventi sul poco che sappiamo della sua non semplice vita.
È il sorriso che guida la sua esistenza, anche e soprattutto nelle difficoltà: «Mentre il buio scendeva la morsa li strinse,/ non avevano trovato alloggio, lei vacillava/ sul dorso dell’asino, ma sorrideva a Giuseppe/ a cui negli occhi cresceva l’angoscia della notte/ con il suo gelo già dal tramonto bruciante./ Fu lei, con la mano destra, che indicò la grotta,/ un anfratto poco distante, interrato./ Si intravedeva un’apertura, la raggiunsero./ “Impossibile” disse lui. “È troppo fredda.”/ “Ci è stata data, sulla strada” rispose la donna/ e sorrideva, già nelle doglie». Si mette a segno la fedeltà di Maria, Virgo fidelis, nell’angoscia e nell’incomprensione di ciò che accade: «Neppure lei leggeva il disegno,/ fatale era anche il suo passo sempre più stanco,/ ma una strana accettazione presciente/ vinceva l’apprensione, coabitandovi». Il tremendo passaggio alla Via Crucis non stempera la sua fede, non la piega, ma tutto accoglie, tutto accetta, senza la smania di comprendere e dare giudizio prima del tempo: «Lei, timida, che non aveva osato piangere/ nella carneficina e nel tumulto/ di chi gridava e flagellava, nel sangue sgorgante,/ mite, confusa ai pochi che piangevano,/ in un angolo, lontana da loro, condannata/ a essere già certa e consapevole/ mentre il suo cuore sgorgava lacrime/ senza sgomento, senza ripulsa,/ in muta accettazione del suo stesso pianto./ Lei già prima e già oltre,/ felice come le era stato concesso dall’annuncio,/ docile come le era stato scritto dagli astri,/ ma sanguinante, dentro, dolcemente, come un agnello». Fanno riflettere ed emozionano i Frammenti dall’esistenza di Maria, perché spesso ci perdiamo d’animo nelle difficoltà, dimenticandoci di considerare, com’è bene espresso nell’incanto di queste liriche, quanto il silenzio e l’attesa siano gravidi di speranza.
La letteratura italiana nasce nel segno dell’innografia mariana: è, dunque, anche questo un ritorno all’origine della nostra tradizione. E Mussapi lo fa con classe. Tornare all’origine significa essere più giovani. La porta verso est trova qui il suo vero compimento: la nuova, immacolata concezione del genere umano.
Aveva più fede di ognuno di loro,
non domandava e non chiedeva niente.
Per questo io che sono spirito
e luce abbagliante e conoscenza suprema
ho soggezione di lei, la venero,
regina nel suo regno di silenzio e ombra.
Per questo la fece ascendere, viva, alle stelle
e alla meraviglia celeste creata per sempre.
Lui, a volte brusco nelle risposte,
soltanto lui la capì e sottrasse
al sangue e all’orrore del rigor mortis.
Io non immaginavo che una creatura umana
potesse superare la mia scienza
dicendo sempre sì, sempre, in silenzio.
Roberto Mussapi
***
La luce per Marco Nereo Rotelli ha quasi una funzione “abitativa”. Egli intende infatti la luce come dimensione dell’essere e più che per illuminare le cose la propone come cosa, come luogo, soggetto e oggetto della rappresentazione. Qualcosa che consente di abitare un luogo poeticamente, avendo consapevolezza che la bellezza permette di vivere meglio. Eccco allora che il 22 giugno, alle 18.30, si aprono le porte dello studio di Milano di Marco Nereo Rotelli in Via Stendhal 36 per accogliere il poeta Roberto Mussapi che presenterà, tra i quadri e le installazioni luminose di Rotelli, il suo ultimo libro Le piume del Simorgh (Lo Specchio – Mondadori). Tra i due vi è un rapporto di amicizia e stima (Mussapi è stato curatore della mostra di Rotelli a Palazzo Reale nel 2010), una sintonia di intenti per una collaborazione continua.