Danilo Maestosi
Un mondo sempre più in crisi

Povera arte romana!

Dopo il Vittoriano, le Scuderie del Quirinale: gli spazi espositivi della Capitale perdono identità e autonomia. Mentre la Gnam organizza l'ennesima rivoluzione in un bicchier d'acqua

La rete culturale di Roma Capitale continua a perdere pezzi. Un guaio in più per la giunta Cinque stelle che il nuovo sindaco Raggi si appresta a costruire. Ora sotto minaccia di esproprio sono le Scuderie del Quirinale, il contenitore più quotato della Capitale. E qualche mese fa era toccato al Vittoriano, lo spazio espositivo più grande della Capitale. Con un doppio passaggio di consegne al quale, nel vuoto provocato in Campidoglio dalla gestione commissariale, nessuno ha prestato attenzione. Il primo atto è stato il trasferimento della gestione del monumento (dal museo del Risorgimento al dedalo di spazi espositivi incluso in quel gigantesco ventre di marmo bianco) dall’imprenditore privato Alessandro Nicosia, che grazie a una proroga lo aveva in concessione, alla Ales, una società controllata dai Beni Culturali, alla cui direzione il ministro Dario Franceschini ha insediato Mario De Simoni, ex direttore del Palaexpo, di cui continua a coprire la reggenza.

Il secondo atto è stata la cessione dell’Ala Brasini, spazio ai piedi del Campidoglio specializzato in mostre di cartello e cassetta, dallo stesso Nicosia ad una società leader del settore, Arthemisia, che ne ha immediatamente preso possesso. Di fatto un subentro di contratto, a poco più di un anno dalla scadenza della concessione. Si tratta di due contenitori sui quali il Comune non aveva competenza diretta, ma sui quali da tempo esercitava un controllo e un sostegno indiretto. Dal commissario Tronca nessuna obiezione. Indifferente la città.

E veniamo alle Scuderie del Quirinale, che il Campidoglio durante la presidenza Ciampi aveva contribuito a riattivare d’intesa con il Quirinale stesso e il Collegio romano, come ribalta privilegiata di mostre di assoluto prestigio internazionale e grande affluenza di pubblico: Tiziano, Memling, Antonello da Messina, Frida Kahlo e così via. E di cui si occupava in concessione, dopo aver inserito lo spazio in un’azienda speciale che pilotava anche il Palaexpo, da un paio d’anni commissariato per mancanza di fondi, dopo lo scioglimento del consiglio di amministrazione, seguito alle dimissioni del presidente Franco Bernabè. Stavolta, il commissario comunale Tronca si è mosso per tempo, chiedendo il rinnovo della concessione scaduta. Ma la sua richiesta non è stata accolta. L’intenzione del ministero, che avrebbe dalla sua anche il via libera del Quirinale e del presidente Mattarella, è di gestire in proprio lo spazio, trasferendo la cabina di regia alla Ales di Mario De Simoni che ha tenuto per anni il timone delle Scuderie e dunque garantirebbe competenze e continuità. Il progetto offrirebbe al ministro Dario Franceschini, tra i tanti vantaggi, quello di sfilare al Campidoglio una ribalta culturale e una bocca di fuoco di grande importanza. Nel calcolo c’è anche la speranza che il nuovo sindaco, alle prese con un bilancio pieno di buchi e un debito da alleggerire, potrebbe non prestar troppa attenzione e dunque opporre poca resistenza a questa manovra: la gestione delle Scuderie è comunque operazione costosa e al momento la nuova giunta sembra sintonizzata su altre priorità. Per Roma sarebbe comunque una perdita secca, una città che vuol competere con altre capitali e recuperare un peso nazionale adeguato sul piano dell’offerta culturale, non può rinunciare a un palcoscenico collaudato come le Scuderie, indispensabile per aumentare il suo potere di contrattazione e restare nel circuito espositivo di serie A. Quanto alle Scuderie passare sotto il controllo dei Beni Culturali rischia di subordinarne la programmazione a quella dei tanti grandi musei della rete statale: perdere in autonomia e guadagnare sulla carta sul piano delle sinergie.

A sostenere questa linea di tendenza è un personaggio che Franceschini ha inserito tra i suoi consiglieri più fidati: Franco Bernabè, ex amministratore di Eni e Telecom Italia, un sovrapporsi di cariche di nomina o benestare governativi tra cui la presidenza dell’Istituto banche popolari italiane e della commissione italiana per l’Unesco. A guardar bene, il passaggio sotto un’unica cabina di regia del Vittoriano e delle Scuderie non è che la riproposizione di un piano che Bernabè aveva messo a punto e reso esplicito da un’altra postazione quando nel 2015 era stato chiamato a presiedere l’azienda comunale da cui dipendono Palaexpo, Scuderie e Casa del jazz. Investito dell’incarico come una sorta di salvatore, perché forte di esperienza e amicizie nel settore dell’arte (Biennale di Venezia, Festival Roma Europa, Mart di Rovereto) avrebbe dovuto e potuto coinvolgere imprenditori pubblici e privati e convincerli a rimpinguare con i loro contributi le casse a secco dei due padiglioni espositivi. Mandato ampiamente fallito, visto che dopo pochi mesi Bernabè in dissenso con il Campidoglio si è dimesso facendo precipitare il Palaexpo nel baratro di una gestione commissariale che ancora perdura.

Colpito ma inaffondabile. Franceschini gli getta subito una ciambella di salvataggio designandolo al recupero di un altro carrozzone sull’orlo della bancarotta: la Quadriennale, un ente nato negli anni del regime come risposta romana alla Biennale di Venezia, che dal dopoguerra va avanti a corrente alterna e dopo l’ultimo tentativo di rilancio negli anni d’oro di Berlusconi ha perso rotta e finanziamenti. L’inizio è un mezzo naufragio: la prima idea di Bernabè è di organizzare una rassegna a gettone, obbligando gli autori invitati a pagarsi le spese, secondo una procedura che è ormai prassi anche per molti musei. Il popolo degli artisti insorge, obbligandolo a fare marcia indietro. Fino a quando Franceschini non interviene ancora una volta in suo aiuto, assicurandogli il contributo, un milione di euro, che serve a garantire lo svolgimento della nuova edizione. Edizione che viene varata e presentata a fine primavera. Si svolgerà ad ottobre al Palaexpo che occuperà per 3 mesi, consentendo al padiglione di via Nazionale in crisi di chiudere il proprio cartellone senza ansie e precarie pecette.

Unica novità di questa nuova puntata, cui prenderanno parte un centinaio di autori di varie generazioni, è che la scelta viene affidata ad una giuria di giovani curatori, tutti sotto o attorno ai 40 anni, tutti o quasi pescati dal serbatoio di riviste specializzate che governano l’incerto corso del contemporaneo del nostro paese. Ne esce fuori un cartellone suddiviso in dieci capitoli tematici che più che fare il punto sui nuovi talenti e le voci emergenti dell’arte di oggi sembra preoccupato di perpetuare vizi e difetti del sistema e la sua incapacità di svincolarsi dai condizionamenti del mercato. Insomma un panorama desolante e scontato dominato più che dalla qualità delle opere dalle quotazioni che quegli autori hanno raggiunto in serie A e in serie B, e che la critica rampante e modaiola si sforza di imporre ed avvalorare. Accentrare è una ricetta che porta sempre ad omologare. Può giovarsene il mercato ma la cultura no.

gnam10Sulla stessa lunghezza d’onda autoreferenziale sembra attestarsi un altro personaggio legato al cerchio magico Bernabè-Franceschini, che vigila sulla sua carriera: Cristiana Collu, una specialista del contemporaneo, scelta su indicazione di Barnebè, che l’aveva già avuta sotto di sé al Mart di Rovereto, a guidare la Galleria nazionale d’arte moderna di Valle Giulia, un museo il cui campo d’azione e le cui collezioni coprono l’Ottocento e parte del Novecento arrestandosi attorno agli anni Sessanta, per non interferire con i compiti di ricognizione affidati al Maxxi di via Guido Reni.

Il suo biglietto di presentazione, dopo un lungo periodo di incubazione, è una sorta di eloquente doppia gaffe da rottamatrice. La prima prende corpo con la rimozione di un’istallazione, un suggestivo pavimento di vetri scheggiati, firmato da Alfredo Pirri, che dominava l’atrio d’ingresso: al suo posto la Collù sistema una sorta di polveroso salotto, divani, tavoli, poltrone, un modesto baretto stile Ikea, sul pavimento un anonimo e sgualcito tappetone a fiori celeste. L’unica cosa che conta – sostiene – è che il visitatore non sia ostacolato da alcuna barriera, come se un’opera d’arte lo fosse. Più grottesca la seconda mossa. La Collu affida a una società di comunicazione il compito di rimodellare il logo del museo, fissato da un acronimo, Gnam, che evidentemente ritiene sovraccarico di echi onomatopeici. Il risultato è la proposta di limitarsi a ribadire l’ovvio. Il museo diventa «La Galleria nazionale», per antonomasia. E la sua sigla dovrebbe essere riassunta da una doppia A. Valeva davvero la pena di spendere soldi per una consulenza così irrilevante e impalpabile? Il giorno dopo i cronisti dei quotidiani si vendicano: nei titoli trionfa il vecchio acronimo Gnam, quattro battute che almeno un senso tipografico ce l’hanno.

Con queste premesse vengono i brividi al pensiero del riallestimento delle collezioni cui la Collu ha messo mano con lo stesso fervore e che sarà inaugurato a ottobre. Gnam, gnam il museo rivoltato come un calzino per la terza volta nell’ultimo decennio.

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