Alla galleria di Carmine Siniscalco a Roma
Piazza delle Favole
Isabella Collodi con le sue miniature dal sapore quasi “arabeggiante“ insegue l'epopea di un mondo lontano e calpestato: un passato che sembra solo una favola
C’era una volta. Le favole non iniziano più così. O è raro che lo facciano. Troppo vago, volatile, aperto all’imprevisto e agli umori l’imperfetto per trascinare nel vortice dei suoi andirivieni il popolo di oggi immolato all’eterno presente delle scommesse in borsa, delle misure astratte del profitto, dei conti che devono sempre contare anche se non tornano mai. Peccato: è una perdita secca, che ci condanna tutti, i giovani a una vecchiaia precoce, gli adulti e i sempre più anziani a una vecchiaia estenuata.
È il rimpianto che aleggia nel titolo della mostra con cui un gallerista ultraottantenne sempreverde e in controtendenza come Carmine Siniscalco porta in scena fino al 17 giugno nelle sale di via della Penna 59, i lavori di 3 artisti fuori circuito, che alle favole non hanno mai voltato le spalle. E torna ad aggredirci in particolare attraverso le opere di Isabella Collodi che appartengono tutte – i lavori recenti qui esposti e quelli che per anni ha prodotto – a quel regno di eterno imperfetto dove le cose accadono senza bisogno di spiegazione, come succede ai sogni. E alla vecchie favole appunto.
Maestra d’incisione, trent’anni e oltre di prestigiosa carriera alle spalle, Isabella Collodi si rifà ad una tecnica quasi dimenticata dal sistema dell’arte contemporanea d’occidente votato alla rapidità del gesto e all’ostentazione su scala dilatata dei propri messaggi: quella della miniatura orientale che raggiunse il suo culmine in Persia e nell’India degli imperatori Moghul.
Una scelta quasi obbligata, la miniatura, per un’autrice come lei che sente di aver molte cose da dire e vuol dirle tutte, anche se lo spazio dei fogli, che utilizza, è ridotto. E allora ecco quei segni a china che incidono netti e precisi figure bambine e fantasmi antropomorfi che riemergono mettendosi in posa da chissà quali diari segreti d’infanzia, ma poi li sommergono a riempire ogni vuoto di altri segni, altre figure , altri simboli, altri scorci intrecciati. Ecco l’acquarello che completa di colori morbidi, spugnosi e quasi evanescenti la totale cancellazione del bianco. Ecco la narrazione abbandonare come appunto succede nelle miniature persiane ogni regola prospettica e moltiplicarsi in mille rivoli sovrapposti come caselle di un gioco dell’oca animato, dove per avanzare devi retrocedere, srotolare altri fili aggrovigliati fino a che non ti ritrovi al traguardo.
Ecco quel sapore d’Oriente che ti impregna lo sguardo ad ogni passo: le pose da meditazione o ginnastica yoga, i paesaggi appena accennati, la stilizzazione delle figure. Ma è un Oriente che sembra reinventato dalla fantasia di Peter Pan reincarnata in una sorta di donnina folletto, alter ego dell’autrice, che appare e scompare, si dondola, fa capriole e sberleffi, cavalca gatti e leopardi, ostentando una nudità casta e seduttiva, timida e sfrontata da adolescente, calzando sul viso maschere di animali o divinità , sdoppiandosi in altre figure. Un trascinante invito alla leggerezza che non lascia a chi guarda altra scelta che chiamarsi fuori o abitare quelle visioni, immedesimarsi nel gioco, fino a scoprire che quell’allegria ridondante, ipnotica ed ingenua nasconde trabocchetti di malinconia persino lacrime di dolore. E momenti di intensa profondità. Ci racconta un’isola che non c’è. Ma sicuramente c’era una volta.
Come la Campo dei Fiori che Isabella Collodi reinventa, sei mesi consacrati a penne e pennelli, in uno dei suoi quadri più enigmatici e fascinosi, ispirandosi ad un racconto di Giorgio Vigolo. Un uomo trova su una bancarella di piazza del Paradiso un libro antico che contiene una mappa e una descrizione di Campo de’ Fiori. Prova a seguirne le indicazioni ma scopre che strade, paesaggi e dettagli descrivono un luogo che assomiglia a quello storico slargo su cui svetta la statua di Giordano Bruno eppure se ne discosta. È uno spazio del tutto diverso, più accogliente, vivace, affollato come la pista d’un circo a fine spettacolo. Un giorno sbagliando porta si ritrova di colpo in quel bizzarro altrove cui invano aveva dato la caccia. Girando riconosce lo studio di un amico pittore che non vedeva da anni, decide di salire e dargli un saluto. Si abbracciano, parlano a lungo, il pittore gli mostra il quadro che sta dipingendo e la modella, una bella ragazza, che posa per lui. Poi il visitatore si accommiata e uscendo apprende da una portiera che il suo amico è in realtà morto da mesi. Il paesaggio gli cambia ancora davanti. Non c’è più il sole, fa freddo, le case sono diventate tetre, i colori sbiaditi, la folla è scomparsa.
Il quadro di Isabella Collodi rispetta il copione alla lettera, ma il prima e il dopo si mescolano e sgomitano sullo stesso foglio. Anche i colori si sovrappongono, i toni cupi intrecciati a quelli più morbidi e rassicuranti. Il dentro e il fuori, visibile e invisibile si riconoscono e si perdono nel doppio gioco spaesante dell’arte e della morte. In quel c’era una volta di tante favole dimenticate, che esistono solo per chi ancora ci crede. E sa raccontarle. Come Isabella Collodi. Come gli altri due artisti over sessanta che la regia di Carmine Siniscalco le affianca in mostra a far da controcanto: Giancarlo Iacumucci, alias Litofino, un pittore che rimodella le sue fantasie sui capolavori di Michelangelo ed Emanuela Dan, una scultrice che distilla dalla terracotta figurine di animali arcaici e improbabili.