Alla Reggia di Caserta
Nuovo Terrae Motus
Finalmente riapre al pubblico al collezione "Terrae Motus" che Lucio Amelio costituì dopo il sisma del 1980 chiamando a raccolta grandi maestri da Cy Twombly a Rauschenberg, Schnabel, Cucchi, Kounellis, Fermariello, Gilbert & George, Andy Warhol, Pistoletto, Beuys
«Non abbiamo portato un altro ornamento a questa Reggia, ma abbiamo disseminato una serie di bombe ad orologeria per scatenare la creatività che è presente in ogni uomo e che spesso viene repressa dalla corruzione, dalla cattiveria, dalla miseria, dalla malattia. Uno strumento prorompente che serve a tutti. Vorrei che Terrae Motus superasse tutte le gelosie e diventasse un tentativo di appropriazione del nostro futuro». L’arte come funzione pubblica, riscatto dal degrado politico-culturale. L’arte che nasce da una ferita e urla verità inesprimibili con le parole. Lucio Amelio proclama il suo manifesto di «un museo d’arte contemporanea nel quale creare una libera scuola» nel film che Mario Franco gira nel 1992 a Caserta durante l’ultima esposizione della collezione-scossa, la «committenza morale, la lezione estetica e radicale» del visionario gallerista napoletano.
Un film con un finale aperto, avverte il regista che, fin dagli esordi, ha seguito l’avventura fatta di incursioni e sconfinamenti di un uomo libero e curioso, un cosmopolita con le radici nel Vesuvio, dall’intelligenza prensile e veloce, dalle grandi intuizioni e grandi sfide, un capotribù capace di stimolare ed essere stimolato, di contaminarsi e contaminare, soprattutto di coinvolgere intellettuali e artisti nella sua rivoluzione culturale, sociale e morale. Che ha il punto di forza proprio in Terrae Motus, il terremoto sovversivo dell’arte, partorito dal sisma reale che sconvolse Campania e Irpinia il 23 novembre del 1980, l’iniziativa più grande e più sofferta di Amelio, «un atto di dolore dedicato a tutti coloro che soffrono la fame, la disperazione, la solitudine, la difficoltà ad educarsi; un atto di speranza, la speranza che si possa creare un punto di riferimento per quanti vogliono cambiare la situazione». Lucio mette in moto una macchina potente che scuote le coscienze, chiama alle armi gli artisti proponendo di creare un’opera sull’onda emotiva di quella terribile tragedia. Nascono, uno dopo l’altro, una serie di capolavori, prende vita una raccolta di tele, sculture e installazioni che non è un «cacofonico assemblaggio di cose messe insieme per ragioni di mercato» (l’accusa dei pittori napoletani esclusi, sostenuti da qualche critico e da qualche funzionario di Soprintendenza), bensì un unico processo creativo in continuo, incessante divenire che vede attori i protagonisti del panorama internazionale. Arte povera e concettuale, transavanguardia e neoespressionismo, il ritorno alla pittura e la forza della fotografia: una vera e propria antologia dell’arte contemporanea sul tema dell’apocalisse.
Quel film aperto di Franco, in parte confluito nel documentario per la Rai di Mario Martone Lucio Amelio/Terrae Motus del ’93, ha oggi un’altra sequenza. Non la definitiva. Piuttosto – ci si augura – il capitolo che conduce al the end di una storia tessuta da indifferenza, degrado, abbandono e oblio. La collezione per tre anni fu esposta a villa Campolieto di Ercolano, poi, nel 1987, al Grand Palais di Parigi, infine, dopo il sogno infranto di una sede stabile nell’ex convento di Santa Lucia al Monte di Napoli, “parcheggiata” nella Reggia di Caserta. Visibile solo in rare occasioni, malgrado il legato testamentario di Amelio avesse come clausola l’obbligo di esporla in maniera permanente e completa. Una “bomba” a scoppio ritardato che esplode finalmente grazie alla miccia accesa da Mauro Felicori, neo direttore del complesso vanvitelliano, emiliano, classe 1952, laurea in filosofia ed esperienze maturate nel campo della gestione di imprese culturali, marketing e comunicazione. Dal primo giugno, delle 72 opere di questo opus magnum che sembrava condannato alla damnatio memoriae, sessantotto sono fruibili (quattro sono in restauro) nella Sala della Racchetta al piano nobile – dietro la Cappella Palatina e in prosecuzione con gli appartamenti reali – utilizzata come cinema, fino a sei mesi fa, dall’Aeronautica militare e ceduta al Ministero per i Beni culturali e del Turismo. Spazi inutilizzati, in attesa di una destinazione.
Ed ecco l’intuizione geniale e audace di Felicori: rendere da subito disponibile questo patrimonio immenso al grido di Fate presto, il titolo del trittico di Andy Warhol costruito sulla prima pagina de Il Mattino all’indomani del sisma. «Riassume tutta la straordinarietà della collezione – spiega il pragmatico direttore – e sintetizza la speranza che la particolarità di una raccolta che il mondo ci invidia possa trovare in tempi brevi l’allestimento che ne esalti la sua potenza». Ed ecco la provocazione che lancia per accelerare lungaggini burocratiche relative al finanziamento di dieci milioni di euro stanziati dall’Unione europea attraverso la Regione. Con un pool di sponsor, l’ausilio di Scabec, e la cifra di 80mila euro ha messo su un vero e proprio cantiere su millecinquecento metri quadri, che evoca i tanti della Ricostruzione in Irpinia. Si chiama così, Cantiere Terrae Motus, la mostra – «provvisoria e perfettibile in tutti i sensi» – che il pubblico ammirerà tutti i giorni (tranne il martedì, giorno di chiusura) in attesa che parta il progetto effettivo di recupero degli ambienti e la sistemazione museale che richiederà almeno due anni. Quando si entrerà nel vivo degli interventi la collezione sarà in tournée all’estero come ambasciatrice della cultura partenopea. Ci sono, infatti, già accordi con l’Hermitage di San Pietroburgo – previsto lo scambio con i paesaggisti a cavallo tra Sette-Ottocento in confronto con gli Hackert della Reggia – con Tokyo, altra terra sismica che ha ispirato gli artisti, e la Cina.
Precarietà. Forse è questo il fascino di un percorso inconsueto fatto di flash che appaiono tra tubi innocenti, pedane e pannelli di legno montati ad hoc: un teatrino dell’incompiuto, le tessere di un mosaico instabile che affiorano indisciplinate. È un’anarchia che, però, consente un colpo d’occhio su un tesoro finora negato che si può afferrare nella sua interezza, cogliendo, negli stili e nei linguaggi eterogenei, il fil rouge che lega Amelio ai suoi artisti sull’onda di una stessa tensione. Mancano i tradizionali criteri allestitivi, è mortificata la visione univoca di lavori qui troppo ravvicinati. Poco importa, l’importante è fare e fare presto; sensibilizzare le istituzioni e l’opinione pubblica facendo leva sull’essenza di un corpo tentacolare dall’unica anima che vuol tornare a vivere. Cantiere Terrae Motus è l’affresco di un post terremoto sconvolto ancora da scosse di assestamento. E macerie pulsanti sono la polifonia del Warhol accostato alle scritture impazzite di Cy Twombly, ai graffiti di Keith Haring e al naufragio di Nino Longobardi, il primo a rispondere all’appello del gallerista agitatore e rivoluzionario; o nella lunga galleria l’Eva cacciata dal Paradiso di Francisco Leira insieme ai massi di Long e alle pietre di Craig fino ad arrivare al vecchio schermo dove campeggia, quasi pala d’altare, il Re uccisi al decadere della forza di Paladino. Detriti di una deflagrazione, appoggiati sul pavimento, sospesi su sostegni di ferro, disposti in aule dismesse.
Ci specchiamo nell’Annunciazione di Pistoletto, varchiamo la Porta Italia con le penisole capovolte di Fabro, restiamo stupiti di fronte all’installazione neoclassica di Paolini, sussultiamo con l’infuocato Schifano, sostiamo davanti al volto enigmatico tagliato a ventaglio di Ontani, soffriamo per il Mertz dai neon spenti e per il polittico fotografico di Mapplethorpe leggermente lesionato. Scorrono i nomi di chi ha fatto la storia dell’arte del Novecento: Tatafiore, Pisani, Rauschenberg, Schnabel, Cucchi, Kounellis, Fermariello, Bianchi, James Brown, Gilbert & George. Eccoci di fronte all’altra commovente icona di Terrae Motus: il Terremoto in Palazzo di Joseph Beuys realizzato con tavoli da lavoro trovati nelle zone terremotate, frammenti di vetro, vasi di terracotta ed altri fragili elementi posti in equilibrio precario. “Quel palazzo – spiega Andrea Viliani, il direttore del Madre che ha concesso il matronato alla mostra per innalzare il ponte dell’arte Napoli-Caserta – è in realtà l’impalcatura che c’è dentro la nostra testa fatta di senso morale, dignità, orgoglio civico”. Benvenuto, dunque, questo nuovo terremoto in palazzo se davvero servirà a restituire il suo valore alla collezione-testamento di Amelio.