Una nuova mostra al Maxxi
L’arte delle intenzioni
Le installazioni del kosovaro Sislej Xhafa mostrano tutti i limiti dell'arte concettuale che perde di vista il confine scivoloso che separa arte e creatività, gesto e intenzione
Un mosaico di facce in bianco e nero tappezza l’intero fianco della ex caserma che segna l’ingresso del Maxxi. E fa da prologo e biglietto da visita alle due nuove mostre appena inaugurate all’interno del museo. Sono volti di bambini ritratti da un fotograffitista francese che firma le sue istallazioni con la sigla JR. Out Inside: ha intitolato questo intervento realizzato per l’occasione. L’autore ha interrogato i bambini e registrato le loro impressioni all’uscita dal museo: ma invece di raccogliere le loro parole ha fotografato le loro espressioni.
Peccato che poi tutti o quasi gli intervistati si siano esibiti in un repertorio di smorfie preso in prestito alle faccette stilizzate che i social network mettono a loro disposizione. Alle maschere e ai travestimenti stereotipati del popolo abituale della Rete tutti finiamo o finiremo per pagare dazio. Ma l’idea è niente male. In fondo, smorfie, sorrisi e linguacce offrono alle impressioni a caldo un vocabolario più ricco di sfumature di quelle due immancabili vie di fuga, (Bello-Brutto) cui il pubblico non addetto ai lavori fa generalmente ricorso per nascondere imbarazzo e difficoltà di comprensione e giudizio nei confronti dell’arte di oggi. E allora perché non seguire per una volta lo stesso criterio nel valutare la mostra del performer kosovaro Sislej Xhafa, che è il richiamo inedito in cartellone? E per adeguarci a questa scelta stile Faceboock perché non dedicare un selfie della mia faccia alle opere che nel bene e nel male più mi hanno colpito?
La prima smorfia è di perplessità. A suscitarla è un tavolino piazzato nel cortile del museo, con un ombrellone conficcato al centro e sormontato da una scritta al neon: Paradiso. Dovrebbe essere un’azione spaesante che – spiega il depliant di presentazione – reinventa un altro spazio e un altro tempo «tanto da portare con sé un’altra drammatica riflessione: in che misura l’Europa è un paradiso deludente per i migranti e persino per noi stessi». Sarà che il messaggio si perde nel disinvolto disordine che governa l’esterno del Maxxi: gente che legge il giornale sulle panchine, famigliole sedute ai tavoli, una coppia sbracata sulle sedie che completano l’istallazione. Sarà che domande così impegnative e incalzanti sono appese a una messinscena già vista tante volte. Ma a noi l’opera sembra davvero misera e irrilevante.
Altre due boccacce increspate di delusione. La prima all’uscita di una stanzetta buia dove sulla parete è proiettata la foto di un uomo con i baffetti e la pelle scura, un marocchino, che dorme. Non è un po’ troppo poco per raccontarci, come una sensazione da condividere con emozione, « l’immutabilità del tempo»? La seconda, nella sala dove insieme ad altre opere è appeso un aratro da cui piovono grappoli di lampadine accese. Anche qui un senso di già visto, di trucco facile facile, in cui annega un titolo pretenzioso « Sunshine 2015».
Ma anche a riscattare il bilancio due sorrisi da mi piace incondizionato. È l’impatto davvero forte con un video in bianco e nero in cui si vede una bicicletta che va a fuoco. La bicicletta che continua a bruciarci davanti agli occhi è vecchia e malmessa: parla di povertà,di fatica di vivere. Le fiamme evocano un rito, una ritorsione da Ku Klux Klan.
La seconda emozione forte arriva da una lunga gabbia che si prolunga per una dozzina di metri a fasciare l’intera parete a esse della sala, disegnata dal genio sghembo dell’archistar Zaha Hadid. Tra le sbarre spuntano a intervalli calchi di mani nodose e intrecciate, come potresti vederne attraversando il braccio di una prigione. Un urlo silenzioso cui è impossibile sottrarsi.
Scarti di gradimento sicuramente soggettivi, altri avranno probabilmente capovolto la classifica di questi sintetici giudizi mimati. Ma è sicuramente curioso che uno stesso autore provochi reazioni così altalenanti. Un po’, certo, l’effetto dell’uso di materiali e strumenti di comunicazione così diversi. Più probabilmente il tallone d’Achille, comune a molti compagni di strada del contemporaneo, di un autore che muovendosi su una linea di discorso rigorosamente concettuale perde di vista il confine scivoloso che separa arte e creatività, gesto e intenzione. Più che opere produce idee cui poi confeziona l’abito. A volte l’idea , se è originale e sincera, centra il bersaglio. Altre volte se l’abito è malcucito, troppo usato, la forza motrice del pensiero scivola nella chiacchera, della battuta fine a se stessa.