Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

Il poeta degli incontri

Adam Zagajewski, il grande poeta polacco: «Vedi, l’incontro è possibile, la lingua non è poi diversa. C’è che conta è l’immagine interiore. Siamo tutti noi, non più divisi. Ci incontriamo dove è poesia. Tutti liberi e in pace, l’uno per l’altro, a tenderci la mano. Dunque, non più divisi»

Adam Zagajewski arriva in auto con sua moglie, un tempo attrice, oggi psicoterapeuta, Maja Wodecka. Tutti i poeti hanno, infatti, bisogno di una psicologa. I signori Zagajewski sono belli e sorridenti, hanno lineamenti delicati, misurati. Li osservo dolcemente, mentre incespico in un inglese pallido (e la mia meridionalità alligna). Ora che la Gran Bretagna è fuori dell’Europa – rifletto – non ha più alcun senso conversare in una lingua che sa tanto di dominatore e dominati. Perlomeno, non è molto ecumenico. Gli inglesi hanno lasciato la loro alabarda conficcata nel cuore del Vecchio Continente e sono tornati a veleggiare fra i venti dell’Atlantico. Perché non restaurare l’italiano del Rinascimento, koinè culturale ben più fornita di grazia?

Il sole di giugno, esploso solo da pochi giorni nel Montefeltro, sembra ridere a questo sciocco pensiero: e colpisce. Non gli dò ascolto; per dispetto, si riverbera sui mattoncini ambrati della città. Siamo al parcheggio del Consorzio, all’altezza di una rotonda che snoda la via delle mura in due lunghe serpentine: «Urbino città di Raffaello», cartello alquanto prossemico, fa da cornice e severo censore all’incontro.

“Incontro”, parola desueta. Quando ci si incontra? L’incontro è impossibile, incontrarsi significa spalancare gli occhi sull’alterità. Gettarsi a rompicollo nell’abisso dell’alterità, come mi sto gettando adesso in una lingua che non conosco, a me estranea la destinazione di questo parlare. The way on. Superare il confine di un’altra nazione: valicare il medium inglese per entrare in contatto con il polacco di Zagajewski, con ciò che per lui è stato forma di pensiero, eidos, luce, maternità. Il nostro piccolo mondo chiuso capitalistico non tollera ciò. Per questo motivo non si apre, ma “globalizza”: non è pluralistico, ma individualistico; non cerca l’accoglienza, ma il torcere a sé gli oggetti per inglobarli. Dunque, vedo Zagajewski davanti a me: ma non lo incontro. È un bell’uomo, sua moglie una bella donna. È un piacere osservarli. Però, sento che siamo e non siamo. Ha ragione Eraclito. Dove incontrarli di nuovo?

Adam ZagajewskiDopo la sosta di qualche ora in albergo, Adam e Maja si incamminano verso il Palazzo Ducale scortati dal Rettore e dalle massime autorità. Una telecamera riprende la brevissima passeggiata dall’albergo San Domenico a Piazza Duca Federico, con il sole che sbuca dalle perentorie statue del duomo, quasi fosse un assassino seriale o un giudice incommensurabile.

Alle 17 incomincia la conferenza presieduta da Daniele Piccini, Salvatore Ritrovato e Roberto Danese. Il caldo urbinate scende come una maledizione nel pomeriggio e alle circa cento persone presenti nella Serra d’Inverno, adiacente al meraviglioso Giardino d’Inverno, Zagajewski intima: «Mi dispiace per avervi distolto dall’andare in spiaggia». Le domande dei relatori si alternano alle pacate, ironiche risposte del poeta. Le letture di alcune sue nuove poesie – inedite in Italia – sembrano commuovere l’uditorio. Quando l’aria si stempera e le nubi prendono maggiore possesso del cielo, inizia la cerimonia di conferimento del Sigillo di Ateneo.

Lo stemma dell’Università di Urbino vede al suo centro Maria, la madre di Dio, il cui stile iconografico ricorda molto da vicino la Nostra Signora di Guadalupe. È un segno di quella trascendenza così vivacemente delineata nell’opera di Zagajewski, poeta sempre attento alla scoperta del mistero e dell’incanto. (In effetti il suo arrivo a Urbino ha in sé qualcosa di miracoloso.) Ed è anche un auspicio che lega la consegna del sigillo alla sua poetica e alla nostra piccola realtà, La Resistenza della Poesia, che lo ha fortemente voluto qui. L’evento si chiude con una celebre poesia di Adam, Nella bellezza altrui:

Solo nella bellezza altrui
vi è consolazione, nella musica
altrui e in versi stranieri.
Solo negli altri vi è salvezza,
anche se la solitudine avesse sapore
d’oppio. Non sono un inferno gli altri,
a guardarli il mattino, quando
la fronte è pulita, lavata dai sogni.
Per questo a lungo penso quale
parola usare: se lui o tu.
Ogni lui tradisce un tu, ma
in cambio nella poesia di un altro
è in fedele attesa un dialogo pacato.

Nel momento in cui Michele Pagliaroni, amico e direttore artistico del nostro Centro Teatrale Universitario, comincia a leggerla cautamente, con semplice nitore, mi sembra di incontrare Adam Zagajewski su un altro piano del reale, un diverso piano del vero. Ora la sua figura si staglia chiara e imperiosa nel pensiero e sembra dirmi: «Vedi, l’incontro è possibile, la lingua non è poi diversa. C’è che conta è l’immagine interiore. Siamo tutti noi, non più divisi. Ci incontriamo dove è poesia. Tutti liberi e in pace, l’uno per l’altro, a tenderci la mano. Dunque, non più divisi». La visione ricorda un po’ il finale dei Karamazov. Se la lingua ci aveva separati, la poesia ha lasciato che ci incontrassimo: maestra di cerimonia, ha fatto le sue cortesi presentazioni. Nel Giardino d’Inverno Adam guarda le nubi e la fortezza.

È ora di andare a cena e continuare a conversare in inglese, forzando l’intelletto e gli ultimi spasmi di linearità psicologica. Ho Zagajewski di fronte a me: «my new friend». Un vento leggero si alza e ci divide lungo diversi punti della mura, quasi fosse un sogno da cui saremmo usciti con fatica. E quando torno a casa, uscendo dal sogno e dalla fatica, nello spirito notturno di Urbino così profumato di fiori e di selciato, al di là di lingua e contingenze della vita, mi sembra davvero di aver incontrato l’altro – di essere caduto in un abisso sconosciuto, a capofitto, senza difesa, e si dà il caso che l’altro fosse oggi Adam Zagajewski.

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