Intervista a Carlo Boso
Goldoni e noi
Le quattro sfide lanciate dal maestro internazionale della Commedia dell'arte tornato in Italia con una inedita lettura del “Servitore di due padroni”. Nella certezza che, come da sempre, il teatro è politica, “garante di democrazia”
Da qualche mese a Senigallia è tornato il teatro. Il servitore di due padroni di Goldoni si ripresenta in una veste sontuosamente inedita: l’Italia della fine degli anni Quaranta, distrutta e incartocchiata da malevoli avventori. Un’Italia da ricostruire nella sua fisionomia esteriore ed interiore: dopo il crollo dei “nemici” nasce la nuova Repubblica finanziata dal piano Marshall, che reca sin dall’inizio, in seno alla sua stessa genesi, contraddizioni e asperità. Arlecchino, interpretato da David “Zanza” Anzalone, reduce dalla campagna di Russia e con tanta fame d’amore e amore per la fame, «porta con sé handicap, miseria, furbizia, cialtronaggine e tutta la tenerezza di un popolo che vuole credere nella ricostruzione di un mondo migliore», com’è scritto nelle note registiche di presentazione allo spettacolo.
Gli altri attori della compagnia, provenienti dalle più disparate zone d’Italia, riflettono una generazione di giovani preparati e appassionati alla Commedia dell’Arte, quel fortunato stile drammatico che ha contribuito a rendere famoso il teatro italiano nel mondo. I personaggi goldoniani sono calati nell’atmosfera rarefatta di una Milano somigliante più a una Chicago anni Trenta, chiusa nel grigiore dei sentimenti e nell’impetuoso mordente degli affari, tra lazzi e sparatorie, risate e capovolgimenti di fronte. Le maschere, oggetti di scena fondamentali per questa pièce, sono realizzate da Stefano Perocco di Meduna, allievo di Donato Sartori, figlio dell’illustre scultore Amleto Sartori. La direzione scenica è stata affidata a Carlo Boso, regista di fama internazionale, che ha fatto parte della storica compagnia del Piccolo Teatro di Milano e che ha interpretato a sua volta Arlecchino con il TAG Teatro di Venezia. Boso dirige oggi l’Académie Internationale des Arts du Spectacle di Versailles.
Quale sfida tenta di raccogliere e vincere questo spettacolo, che nelle sue prime apparizioni ha già riscossi notevoli consensi?
«Le sfide sono essenzialmente quattro: in un periodo difficile per le grandi produzioni teatrali, surclassate dalla terribile inflazione di monologhi, una compagnia di nove giovani attori prova a girare l’Italia e l’Europa con uno spettacolo stricto sensu. La seconda sfida è di riuscire a utilizzare la struttura drammaturgica di Carlo Goldoni per poter mettere in piedi un’opera originale: riadattare, cioè, l’architettura antica della storia e inserire in questo nuovo marchingegno teatrale, come già succedeva all’epoca della Commedia dell’Arte, tutta una serie di situazioni che fanno riferimento all’attualità – dagli anni Cinquanta fino a oggi – modernizzando così il testo e mantenendo però, al contempo, un legame aperto con il pubblico, in virtù della costante rottura della “quarta parete”. La terza sfida è di far sì che il ruolo di protagonista sia sostenuto da David Anzalone, un attore diverso dal solito, caratterizzato sin dall’infanzia da particolari capacità motorie. Infine la quarta sfida: costituire un teatro d’arte regionale che prenda forza dalla sua città, dalla sua regione e dalle sue intime risorse per conquistare l’Italia e infine il mondo».
Quali sono i meccanismi essenziali che un regista deve tener ben presenti durante l’allestimento di uno spettacolo comico?
«Per una pièce destinata a fornire lo spaccato della nostra società e dei rapporti di forza che sussistono tra i servi d’oggi e i padroni d’oggi, è essenziale ricostruire sul palcoscenico le “paure”, cioè la credibilità delle tensioni drammatiche che caratterizzano le relazioni della nostra bella umanità, e riuscire a far ridere gli spettatori attraverso effetti comici che abbiano la funzione di liberare catarticamente da tali paure. È una forma, questa, di “teatro rituale”, pensata per dare consapevolezza al pubblico dell’origine delle sue angosce, in modo che le sappia riconoscere e le affronti con maggiore impegno nella vita. La comicità diventa così “garante di democrazia”, come ho imparato lavorando con Strehler e con i De Filippo».
Dopo le fortunate esperienze in Francia e in Europa, cosa significa tornare in Italia con questa forte produzione?
«Significa che in Italia, grazie ai giovani, stanno cambiando le cose: dopo vent’anni di oscurantismo e di genocidio culturale provocato dalle nefarie classi dirigenti che hanno cercato solo di “sgovernare” l’Italia, tornano oggi i presupposti per ripartire dal teatro nella sua declinazione di elemento principe del processo democratico della società. Per me è sorprendente che si stiano ricreando basi forti un po’ in tutta Italia: e ciò avviene paradossalmente grazie alla crisi economica, grazie al fatto che le sovvenzioni dello Stato, date in maniera sconsiderata ai vari centri di cosiddetta “creazione teatrale”, sovvenzioni che servivano più a mantenere gli stipendi di una serie funzionari che a permettere di abbassare i prezzi del biglietto, con la loro soppressione hanno permesso ai giovani di occupare degli spazi rimasti vuoti a causa della penuria del personale. Inoltre, è anche il momento per me di partecipare attivamente, attraverso la trasmissione di un sapere che ho acquisito al Piccolo Teatro di Milano, alla nascita di nuove generazioni di attori che riempiano le sale con la loro forza rappresentativa».
La Commedia dell’Arte è una tipologia di teatro che può essere ancora fondamentale per la società in cui viviamo?
«Se proviamo ad astrarre, se manteniamo cioè l’essenza delle maschere, lasciando da parte la loro connotazione storica, e pensiamo al Pantalone come l’esecutore moderno dell’atto commerciale, all’Arlecchino come il rappresentante della classe del precariato, all’Innamorata come la donna che aspira alla libertà a costo di entrare in conflitto con l’ambiente in cui vive, la Commedia dell’Arte, a livello planetario, serba ancora perfettamente integri tutti i suoi valori d’origine. Non bisogna dimenticarsi poi che, nel Rinascimento, l’Improvvisa – forma di teatro falsamente povera, perché povera sì di mezzi, ma ricchissima d’immaginazione – ha dato voce a una vera e propria industria familiare, al cosiddetto artigianato d’arte, per forza della sua struttura di piccola impresa con una quindicina di attori a carico, che rappresentano tutte le categorie sociali e che tutt’oggi riescono a riprodurre e veicolare le qualità fondamentali per la nostra società».
Il teatro può avere un peso politico nel cambiamento reale del nostro Paese?
«Il teatro è politica. La Commedia dell’Arte nasce tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, in un periodo storico in cui prendono sempre più corpo le feste e i riti relativi al Carnevale: in quelle circostanze il teatro permetteva agli umili e ai meno abbienti di avere il diritto di parola e di criticare il potere per mezzo dell’azione eversiva della rappresentazione. In ogni epoca, il teatro è stato un atto eminentemente politico: l’arte, cioè, di governare la polis, di governare la città e gli altri, e, come suggerisce Aristofane, l’arte di porre rimedio al malgoverno da parte di chi gestisce la nostra esistenza, con l’aiuto di un’arma invincibile: l’ironia».