Fa male lo sport
Conte, l’indiano
Vincente, arrogante, urlante, previdente: Antonio Conte è il prototipo dell'italiano. Almeno quello sognato dalla maggioranza di noi. Uno che vince perché, per la prima volta, gestisce una nazionale senza fuoriclasse
Riuscisse a vincere gli Europei di calcio, viene difficile pensare che Antonio Conte possa sostituire Banderas, l’altro Antonio, nella pubblicità dei tarallucci del Mulino Bianco. Poco appeal e la fama di antipatico. Lo sa anche lui di non piacere, tanto che un giorno disse: «Sono antipatico perché vinco ma non è un problema mio…». Il fatto che abbia allenato, dopo averci giocato, la Juve, la squadra che divide più di Maria Elena Boschi, non aiuta. Ma non è soltanto questa appartenenza a renderlo indisponente. Con i bianconeri ha vinto 3 scudetti di fila, dominando in lungo e largo, fallendo però in Champions. Ma ogni campionato, ogni vittoria è stata una guerra, lui, accerchiato nel fortino, a sparare addosso a tutto e a tutti. È successo anche con la nazionale. Con Agnelli e soci si sono lasciati in malo modo. Molti amanti del bianconero non lo rimpiangono e ora che c’è Allegri non mostrano nostalgie.
Però una cosa va detta subito: Antonio Conte da Lecce, città dove non può mettere piede, perché ha “osato” guidare il Bari, la squadra innominabile per i salentini, è uno dei migliori allenatori italiani. Uno che riesce a coniugare perfettamente tattica e psicologia, un duro che studia ogni cosa con meticolosità e puntiglio, che non ammette sgarri o comportamenti devianti. Uno che è riuscito a far superare il primo turno a una squadra, la nazionale che sta giocando in Francia, piuttosto scarsa, priva di grandi personalità, senza piedi buoni, un gruppo circondato dallo scetticismo generale.
È stato addirittura creato un neologismo, in queste prime settimane francesi: il “contismo”. Ne ha parlato negli studi di Sky, Mario Sconcerti, subito dopo la partita con il Belgio che ha stupito un po’ tutti, dopo prove decisamente indecenti della truppa azzurra. Ha detto più o meno Sconcerti: «Questa con il Belgio è la vittoria dell’organizzazione. In tanti anni che vedo e studio il calcio non ho mai visto una squadra normale, niente di che, diciamo, che obbedisse e che fosse tanto l’espressione del proprio tecnico come questa. Stasera è nato il “contismo”. Questi tre punti valgono tantissimo. È la prima volta dagli anni Cinquanta che giochiamo senza un fuoriclasse, ne abbiamo sempre avuti. Non abbiamo mai potuto giocare con questo tipo di umiltà e calcio fintamente terra terra perché avevamo la responsabilità di grandi fuoriclasse».
Aveva anche il viso insanguinato, il Conte furioso della partita d’esordio. E quando compiva il gesto più consueto quando siede (siede? non sta mai seduto…) in panchina, e cioè le due mani vicino alla bocca mentre urla per farsi sentire meglio, tanto che a fine gara è spesso rauco, ebbene quella scena aveva in sé qualcosa di tragico: le chiazze di rosso sotto il naso, il sangue di una ferita improvvisa a causa di uno scontro del tutto casuale con Zaza nell’esultanza collettiva dell’intera panchina al gol di Giaccherini, sembravano pennellate granguignolesche. Il furore macabro della rappresentazione.
Gli urlacci di Conte rappresentano uno show a parte, sempre. In questo rassomiglia molto da vicino a Simeone, il tecnico dell’Atletico Madrid. Anche il Cholo si agita a bordo campo, abbassa e alza le braccia per chiamare al tifo lo stadio, pratica un calcio concreto e duro, che non contempla fronzoli e leggerezze. Pure per lui è stato coniato un termine, il “cholismo”, per indicare un modo di essere, uno stile di calcio, un marchio.
Ma a differenza dell’argentino che ha portato a livello altissimo la squadra meno nobile di Madrid, il nostro ct (non chiamatelo così, si arrabbia, lui è un allenatore e basta) è meno spontaneo, più rigido, maniacale nel lavoro e nella preparazione fisico-mentale dei giocatori. Un Sacchi edizione riveduta e corretta anche se il calcio di Conte è l’opposto di quello dell’uomo di Fusignano. Vale a dire, difesa della Juve, con i tre “bastardi” come li ha soprannominati qualcuno in Francia, ricordando il film di Tarantino, vale a dire Barzagli, Bonucci e Chiellini; grande pressing a centrocampo e lanci lunghi dalla difesa verso le due punte. Questo è il gioco di Conte applicato a questa squadra. Inutile aspettarsi svolazzi e dribbling. È una nazionale normale, anzi normalissima. Inutile giudicarla dal gioco, ha osservato ancora Sconcerti, ma sul Corriere della Sera. «Non si può essere delusi da una squadra da cui era giusto non aspettarsi niente… Lo stupore del nostro Europeo è proprio questo, vedere come ci adattiamo ai più forti, come studiamo per rendergli la vita difficile… È come se vincessero gli indiani…».
Ed è come se fossimo tutti noi degli indiani, Cherokee, Sioux, Apache con il Grande Capo che chiama a raccolta, serrare le fila, unire le tribù: vestitevi tutti d’azzurro quando venite allo stadio, è stato l’appello di Conte ai tifosi italici. Come fanno i francesi o gli americani a stelle e strisce, la mano sul cuore quando la banda suona l’inno. Un paese dilaniato e incazzato nero con se stesso che si ritroverebbe tenuto insieme e felice attorno ad una palla. È successo altre volte, va bene. Oggi invece sorgono dubbi sull’efficacia della chiamata alle armi: a) perché viene da un personaggio insopportabile (a troppi), più Mourinho che Montella, più Salvini che Alfano; b) perché conta prima la propria squadra, la mia nazionale è viola, è l’azzurro napoletano, è la maglia giallorossa; c) perché questi qui non scaldano; d) perché di solito cominciamo a fare il tifo e a riversarci strombazzanti nelle piazze un po’ più avanti; e) perché saliamo sul carro del vincitore, a cose fatte, da opportunisti storici; f) perché si fa un favore a Renzi, che è in difficoltà, e vederlo lì in tribuna con la Merkel sarebbe eccessivo, la cosa andrebbe a finire sul conto referendum.
A meno che non prevalga la logica del rituale collettivo, del pensiero unico televisivo, dell’omologazione da social: tutti in piazza vestiti d’azzurro a scalare putti e minerve, fontane e archi, templi e altari. Allora il baccanale, il festival dell’unità appiccicata si farà subito, arriveranno anche due righe dal Quirinale, senza aspettare la prossima partita.
Guai a distrarsi, però. Tornando ad Antonio Conte, il nostro non ama le feste e i brindisi. La Juve aveva già vinto il terzo scudetto “contiano”, due anni fa, c’era da giocare l’ultima partita in casa con il Cagliari e lui non era tranquillo perché voleva che la squadra superasse i cento punti in classifica, impresa mai realizzata. Quindi tutti a lavorare e guai a chi fiata. Appuntamento in sala video, i filmati sono una sua ossessione, glieli prepara il fratello Gianluca. Nella sala entra anche Buffon con il direttore generale Marotta. Buffon, il capitano della squadra, il simbolo, il totem. Non si sa se abbia alzato il ditino per chiedere di parlare. Ma ad un certo punto se ne è uscito così, secondo quanto scrive Alessandro Alciato, uno dei giornalisti più conosciuti di Sky che ha scritto per Vallardi Metodo Conte, un libro che contiene molte cose dello spogliatoio bianconero, alcune conosciute, altre no: «Mister, scusi un istante, il direttore vuole fare chiarezza sulla questione dei premi da pagare alla squadra, dopo la vittoria dello scudetto». Sulla sala è piombata una bomba d’acqua. «Mi avete rotto! Rotto, capito? E adesso andate fuori dalle palle. Fuori, non voglio più vedervi. Fuori, ho detto», la risposta isterica di un Conte scatenato. Che non aveva ancora finito. Infatti appena Buffon ha tentato di ribattere qualcosa lui se l’è presa con il portierone trattandolo come una pezza da piedi: «Gigi, tu sei il capitano. E non capisci niente di niente, anzi diciamolo proprio, tu non capisci un cazzo. Sei una delusione, una sconfitta appena apri bocca. Tu come tutti questi altri deficienti».
È un fanatico della vittoria, Conte, non ammette dunque pause, rallentamenti durante gli allenamenti e durante la gara. Le urla, le tirate contro questo e quello, le risposte acide, servono a motivare, a caricare il gruppo come sta facendo con l’Italia. E il gruppo lo segue fedelmente, lo ama. Non è l’odiato sergente di Full Metal Jacket. Anche ai magistrati che l’hanno tenuto sotto inchiesta per via del calcio scommesse – ma non ha commesso alcuna frode sportiva, ha stabilito una sentenza prima della partenza per gli Europei – lui ha continuato a dire che nella sua testa c’è solo e soltanto una cosa: vincere, sempre, altro che aggiustare partite. Più o meno lo stesso concetto tirò fuori ma con veemenza dopo aver scontato i quattro mesi di squalifica inflitti a lui dal giudice sportivo per “omessa denuncia”. Si sfogò alla sua maniera. «Agghiacciante quello che dicono…» e quell’agghiacciante, detto un po’ con il naso, divenne un tormentone per Maurizio Crozza che lo trasformò in “agghiacciande”. Ma con Crozza non si è mai arrabbiato, anzi in un paio di occasioni il tecnico ci ha scherzato su con sorprendente autoironia.
Non è facile allenare una nazionale. Le cose si complicano con l’Italia. Così Conte, che è bravo e furbo, ha già tracciato il futuro. Finisca sugli altari o nella polvere con gli azzurri, il nostro ct emigrerà e andrà ad ingrossare il movimento degli allenatori italiani all’estero. Un riconoscimento alla sue capacità. Il Chelsea lo aspetta, contratto di 20 milioni di euro per i tre anni. Così potrà anche permettersi altre spesucce sulla sua testa. «Non porto il parrucchino – disse una volta alla Iene – Quello che ho in testa è roba mia. Diecimila dollari e passa la paura. C’è chi si rifà i seni…». Restando in attesa di provini per qualche spot pubblicitario.