A proposito di “Malaparte. Morte come me”
Bonaparte o Malaparte?
Rita Monaldi e Francesco Sorti raccontano il mito furbo di Curzio Malaparte nel paradiso caprese, tra cicisbei, intellettuali e giovani donne ridenti: un romanzo molto italiano
Di nuovo in scena, come avrebbe voluto lui, dandy, narciso, sciupafemmine, arguto giornalista, scrittore originalissimo. Attraversò, con eccezionale disinvoltura, il fascismo e con lo stesso passo spiazzante all’inizio degli anni Cinquanta s’innamorò della Cina di Mao, flirtò con il Pci e con la Chiesa nello stesso tempo. Parliamo di Curzio Malaparte, autore tra l’altro di La pelle e di Kaputt (ripresentati recentemente dalla Adelphi). Lo scorso anno il giornalista e narratore Osvaldo Guerrieri ha pubblicato Curzio (Neri Pozza editore.), una vivace e lucida biografia di colui che l’autore, in un’intervista, ha chiamato «tutto e il contrario di tutto, un furbacchione, un profittatore, un conquistatore di cuori soprattutto femminili e sempre di alto livello». E ora il Malaparte personaggio letterario lo ritroviamo in un libro, lungo (494 pagine), melodrammatico, scattante e curioso, edito da Baldini&Castoldi. S’intitola Malaparte. Morte come me. Gli autori sono due, si chiamano Rita Monaldi e Francesco Sorti, marito e moglie che vivono a Vienna, quasi sconosciuti al lettore medio italiano visto che finora hanno pubblicato (con grande successo di vendite) sempre all’estero.
L’editore milanese fa sapere: «Le note vicende politico-editoriali legate alla prima edizione di Imprimatur hanno tenuto lontano dal nostro Paese le loro opere». Il romanzo in questione, ambientato nel 1600, venne pubblicato nel 2002 dalla Mondadori e tradotto in 20 lingue. Poi lo stop, dovuto, almeno così sostennero gli autori, al “boicottaggio” da parte del Vaticano. Il libro trovò alla fine un editore olandese. La Baldini&Castoldi ha ora posto fine al loro esilio editoriale.
Le vicende di Malaparte iniziano a Capri, nella villa della ricchissima americana Mona Williams, che alcuni, ricordando le sue modestissime origini, chiamano (sussurrando, però) «La puledra del Kentucky». Era infatti figlia di uno stalliere. Collezionista di mariti, diventò l’amante ufficiale del conte Eddie von Bismarck, suo arredatore privato. Malaparte è perfettamente a suo agio nel mondo dei vip e degli snob attratti dal fascino caprese nella calda estate del 1939. Parla con tutti, cinguetta, fa battute, a volte risponde acidamente, poi sorride, ammalia molti ma non riscuote sempre applausi. I gerarchi tedeschi lo guardano male. Qualcuno chiede: «Chi è quello?». Risposta: «È uno scrittore. Ed è completamente folle. Scappò di casa a sedici anni per arruolarsi nella Grande Guerra. Dopo l’armistizio divenne un fascista scatenato, poi però nei suoi libri ha osato prendere in giro Hitler e Mussolini. Dicono che in Germania i nazisti hanno fatto bruciare i suoi libri. È fuggito in Francia, ma gli italiani lo hanno arrestato. Mussolini adesso lo lascia libero solo perché i suoi libri hanno troppo successo. All’inizio nessun editore lo voleva, e doveva pubblicare a spese proprie, la censura gli sequestrava i libri. Ora invece è una star, le donne vanno pazze per lui. Se qualcuno lo offende, lui lo sfida a duello, con la sciabola. E vince sempre».
Gli autori, con questo stratagemma narrativo disegnano (ripetizioni a parte) il profilo di Malaparte, che dal 1925 abbandonò il suo nome anagrafico: Kurt Erich Suckert (Prato 1898-Roma 1957) per un nome italiano e un cognome che ricorda Bonaparte. Nell’affollata e stupenda villa di Mona Williams, con arredi un po’ Luigi XV un po’ rococò, il protagonista pensa a voce alta, ma non sempre: «Eddie von Bismarck, maestro di cerimonie, omosessuale (condizione accettata da Mona, ndr), mi piaceva. Odiava Hitler, il nazismo, la stupidità del nazismo, la stupidità che in quegli anni aveva trionfato in Germania. C’è solo una cosa peggiore di un popolo crudele, ed è un popolo crudele e stupido. Eddie era invece nipote del grande cancelliere tedesco Bismarck, che aveva molti difetti, ma non era stupido. Era uno spiantato, il conte Eddie, ma era uno di quei pochi aristocratici, generali e funzionari di stato che sapevano che Hitler era pazzo, e già vedevano arrivare la sconfitta in guerra e il crollo di tutto il loro vecchio mondo». Nel paradiso caprese, tra cicisbei, intellettuali e giovani donne ridenti, s’infila il timore della guerra. Malaparte a Eddie: «Non so se il fascismo, come voi dite, sia umano. E Mussolini suona male il violino. Sembra un gatto in agonia». Queste frasi profetiche sono verosimili? Solo in un romanzo, ovviamente. Tra gli invitati c’è anche Mafalda di Savoia, ovviamente ignara della sua sorte: morirà di lì a pochi anni nel un campo di concentramento di Buchenwald. Improvvisamente corre una voce, anzi un gridolino: stanno arrivando Galeazzo e Edda Ciano! No, non è vero, figuriamoci se il ministro degli esteri ha tempo libero in quei mesi difficili. Fa invece il suo teatrale ingresso l’attrice Barbara Hutton, che scende con la sua corte da uno dei più grandi yacht. Su Edda Ciano, figlia di Mussolini, gli autori dedicano un capitolo, a circa metà del libro. Si staglia in un’altra villa caprese una contessa Ciano accanita giocatrice di carte, una sigaretta e un sorso d’alcol alternati freneticamente, omaggiata da numerosi lacchè. Così pensava di lei Malaparte: «Quel drago era la femminilità malata della figlia di Mussolini, la sua anima di donna mancata, ma solo io (figuriamoci!, ndr) lo vedevo, solo io sapevo che esisteva. Gli altri si lasciavano impressionare dal numero degli amanti di Edda, e che in realtà non voleva dire nulla, perché Edda, come suo marito, faceva l’amore per snobismo… portava un abitino nero scollato sulle spalle con due grandi rose di carne sul petto, giusto il posto dei seni, e parevano quasi due rose di carne. Facevano voglia di afferrare i seni della figlia del Duce e strizzarli, come se fossero stati due pezzi di carne morta, due scarti di macelleria… al tavolo da gioco era l’unica donna, sola tra uomini, perché lei stessa era un uomo… era un maschiaccio… io sapevo che Edda Ciano era un uomo, un povero uomo nato in un corpo di donna».
Come si vede il tono della narrazione è melodrammatico, tutto puntato sulla ripetizione enfatica. Gli autori buttano tra le righe le tappe storiche di questo e di quel personaggio. Per esempio: Edda, «…l’unica donna italiana apprezzata da Hitler, l’unica mai finita sulla copertina di Time». Dopo la fine del fascismo e la condanna a morte di suo marito, fuggì in Svizzera «a chiedere pietà agli americani, prostituendo per quattro soldi ai servizi segreti di Allen Dulles le carte segrete di suo marito. Non sapeva, la povera Edda, che per sostenere Galeazzo lei avrebbe osato ricattare e minacciare Hitler, diventando finalmente la moglie fedele ed eroica che non era mai stata». Come si sa, il conte Ciano, che aveva sognato di rimpiazzare il suocero alla guida dell’Italia, «si dimenò selvaggiamente sulla sedia a cui era legato, per voltarsi verso il plotone e prendere i proiettili in faccia anziché sulla schiena, riscattando in un momento tutta una vita di vigliaccherie, di tradimenti, di ipocrisie, di mancanza d’amore». Malaparte, si legge nel romanzo, si rivolge a quella che era stata la donna più potente d’Italia per schivare l’accusa di omicidio. Ma la first lady nera, «che amava solo la morte», risponde di non poter far nulla contro l’Ovra, il servizio segreto inventato da Mussolini. La Ciano avverte già il puzzo della sconfitta e dell’isolamento. Nell’andirivieni storico, Malaparte ricorda il rapimento e l’uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti. Era il giugno del 1924, «e io» afferma l’istrionico personaggio «ero un giovane fascista, il futuro prometteva cose meravigliose, e a Roma faceva caldo, molto caldo». L’oppositore più temuto da Mussolini usciva dal portone della sua casa vicino al Tevere. Aveva la sua borsa sottobraccio con dentro “documenti riservati” e si dirigeva verso il suo ufficio, alla Camera dei Deputati dove avrebbe dovuto pronunciato il discorso più importante della sua vita. Quel discorso, e i fascisti più informati lo sapevano, poteva diventare un tremendo fulmine contro una forza politica che s’apprestava a diventare regime. Matteotti aveva un asso nella manica: lo scandalo dell’americana Sinclair Oil, «gli affari sporchi di Mussolini, del petrolio». Ad aspettare il socialista c’erano gli uomini della Ceka, la squadra segreta del dittatore, obbedienti alla perfida regia di una vera canaglia, ossia di Amerigo Dumini, uomo senza alcuno scrupolo, già arruolatore di teppisti e picchiatori. Matteotti, chiamato “il socialmilionario” per le sue condizioni di benestante, fu ucciso a bordo della macchina dei suoi rapitori, i quali poi lo seppellirono alla bell’e meglio poco distante da Roma. Secondo l’accusa di Matteotti i dollari sporchi di petrolio degli americani sarebbero finiti nelle tasche di Mussolini e di suo fratello Arnaldo. Corruzione all’ennesima potenza, dunque.
In cambio gli americani avrebbero esplorato il sottosuolo italiano in cerca dell’oro nero. Beffa della storia: l’Italia, che pur possedeva la Libia, non ottenne in tempo (nel ’40) le apparecchiature per la trivellazione del suolo e del mare della colonia nordafricana. Ci avrebbero pensato, dopo la guerra, gli inglesi e i francesi, spartendosi la Libia ex italiana. Malaparte dette una consistente mano a Mussolini aiutandolo a insabbiare il caso Matteotti-petrolio, e ne approfittò negli anni ottenendo un occhio benevolo sui suoi futuri scatti politico-umorali, per nulla graditi all’inquilino di piazza Venezia. E Dumini? Lui e i suoi uomini „furono condannati a pochi anni di carcere per omicidio preterintenzionale, alcuni addirittura assolti, e poi coperti d’oro per tacere: Mussolini superò la crisi di governo: si assunse pubblicamente la responsabilità morale del delitto e il Parlamento del Regno d’Italia, imbottito di codardi, di corrotti, di furbi, cedette all’affronto. Presto arrivarono la soppressione dei partiti politici e la dittatura, che ci avrebbe condotti a una guerra suicida insieme a Hitler, che tutti in Italia – Mussolini per primo – sapevano pazzo». L’opportunista Malaparte pensò allora:«Almeno ho un credito da riscuotere». In realtà lo riscosse, anche se una decina d’anni dopo fu spedito al confino. Poca cosa rispetto ai veri oppositori.