Vincenzo Nuzzo
Una riflessione sull'essere

Quell’eterno divenire

Nel confronto tra moderno e antico in filosofia, tra Edith Stein e Meister Eckhart, c'è una ridefinizione del rapporto essere-divenire di straordinaria attualità

Non è facile parlare di filosofia moderna in modo che il tema risulti attraente per l’uomo di cultura che non è interessato a questi studi. Ed ancor meno lo è quando si tratta un pensatore moderno che richiama molto da vicino il pensiero antico metafisico-religioso. Eppure proprio quest’ultimo offriva all’uomo ciò che la filosofia moderna non offre più, ovvero una guida nella prassi e specialmente nella prassi della crescita personale quale realizzazione spirituale (Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica?,  Torino :Einaudi 2010). In ogni caso, può accadere che il richiamo del pensiero antico da parte di un filosofo moderno lasci emergere temi che più moderni non potrebbero essere. E mi sembra proprio ciò che accada quando, studiando una pensatrice moderna come Edith Stein, si constata la straordinaria affinità del suo pensiero con quello di un pensatore antico come Meister Eckhart. Cosa peraltro assolutamente inedita, in quanto non solo non messa affatto in luce dalla corrente letteratura. Ma nemmeno dalla stessa autrice, nei cui testi non si trova mai una sola menzione del pensatore.

Sta di fatto che l’analisi critica dei testi di Eckhart (Dietmar Mieth, Meister Eckhart,  München : C.H.Beck Verlag, 2014) mette allo scoperto quei dibattutissimi temi filosofici che videro il conflitto (Davide contro Golia) tra la Stein ed un autentico intoccabile monumento della filosofia moderna, Martin Heidegger. Temi che poi sono propri non solo del pensiero moderno (Hegel, Marx, Nietzsche, Simmel, Heidegger, Bloch, Derrida, Lèvinas, Marion…) ma anche dell’intera cultura del nostro tempo. Si tratta in particolare dell’idea secondo cui l’essere non sarebbe affatto stabile e previo al soggetto conoscente (come nella metafisica e nella fisica antica), ma invece sempre solo dinamico e quindi avanzante davanti ad esso come una perennemente rinnovata Possibilità (come nella biologia evoluzionistica e nella fisica moderna). È l’essere inteso quale divenire al quale Nietzsche in particolare diede forme davvero estreme.

In ogni caso, il ricorrere qui proprio di Eckhart non dovrebbe essere indifferente al lettore moderno. Infatti non vi fu forse un pensatore antico che, con spirito in qualche modo moderno, più provocò l’intollerante ortodossia (per la verità sempre più dogmatica che non tradizionalista). Si tratta della sua dottrina dell’umano-divinità e della diretta filialità divina dell’uomo («nascita divina»). Una dottrina allora come oggi sconfinante verso una sfera di concetti metafisico-religiosi entro la quale poi cessa del tutto la contrapposizione netta tra Paganesimo e Cristianesimo, e si inizia così a discendere la pericolosa (per l’ortodossia) china che reca prima alla «Gnosi» e poi all’eresia.

Ebbene, della messe davvero infinita di assonanze tra Stein ed Eckhart, ve ne è una in particolare sulla quale credo che valga la pena di soffermarsi insieme al moderno lettore. Essa emerge nel saggio premesso dalla pensatrice alla traduzione dei testi di Dionigi l’Areopagita (Edith Stein, Wege der Gotteserkenntnis. Studie zu Dyonisius Areopagita und Übersetzungen seiner Werke, ESGA 17, Freiburg Basel Wien : Herder, 2013).

Nel trattaredel rapporto tra le gerarchie celesti e la suprema conoscenza divina, emerge insomma la simultaneità tra la direzione discendente ed ascendente del rapporto esistente tra immanente e trascendente. Che poi, nel contesto del ciclo neoplatonico, può essere vista come un’equivalenza a sua volta restituente una bi-direzionalità in cui alto e basso sono appunto di fatto simultanei (null’altro che la circolarità infinita tra manifestazione e ritorno).

Meister EckhartEbbene, il moderno concetto di essere quale divenire è a suo modo sofisticato fino al sublime. Eppure la metafisica religiosa non dogmatica (Eckhart, nell’immagine qui accanto, in felicissima congiunzione con Stein) ci mostra che le cose stanno in realtà in modo ancora più complesso e sublime (Mieth, IV, 17 p. 163-164). Mieth chiarisce infatti che l’intera dottrina eckhartiana è letteralmente impregnata di un «già e non ancora». Che però non è affatto da intendere in termini «temporali e storici». Non si tratta infatti per nulla di consecuzione («Nacheinender»), ma invece di un «insieme e l’uno sull’altro» («ein Miteinander und ein Übereinander»). Laddove poi il «già» non è altro che il Principio stesso come «apriorica Origine». Che poi più precisamente non è temporale ma sussiste invece solo al modo del «dovunque» e «sempre» («jederzeit»). Esso è insomma originario proprio in quanto simultaneo. Dunque, in forza del suo agire produttivo, non vi è consecuzione ma solo simultaneità. Per questo il Principio quale Origine è somma Simultaneità temporale (nel senso di una somma Unità sintetica omni-comprendente ogni cosa in senso spaziale e temporale), e che proprio come tale è anche sempre Simultaneità spaziale. Essa è pertanto dappertutto. L’impregnazione spirituale del reale (panteismo) è proprio l’espressione di questo. E per tale motivo non vi è davvero alcun divenire come consecuzione spazio-temporale. Per la precisione, dice il Mieth, in forza di tale fondamentale simultaneità non vi è mai davvero «nulla di nuovo». Infatti il concetto stesso di «nuovo» implica inevitabilmente qualcosa che, non appena accade, è già sorpassato ed invecchiato nel fatale senso del tempo. Ecco che allora il concepire l’essere come «divenire» non è altro che il riferirsi ad un concetto meramente «empirico e sensibile», ovvero un concetto tutt’altro che profondo (sia in senso metafisico che filosofico). Ed è esattamente questo che accade quando si parla di apparizioni dell’essere come «eventi», ossia «apparizioni sempre sfaldantisi l’una nell’altra” («sich ablösende Erscheinungen»). Tutto ciò non è altro che ciò che accade nel «mondo corporeo» e quindi designa semmai altro, ovvero una «presenza dell’eternità». Non è dunque la presenza tout court ciò che si manifesta, ma è invece la presenza di qualcos’altro, ovvero la presenza dell’Eternità.

È proprio a tale proposito che Mieth ironicamente menziona i termini nietzschiani con i quali Ernst Bloch definì l’essere come puro divenire («Noi siamo, ma non ci possediamo, e per questo in primo luogo diveniamo»). È insomma della messa in ridicolo dell’intera pseudo-onto-metafisica riduzionista del pensiero moderno. Parlando di una temporalità dell’essere (essere come divenire, essere come rivelarsi nella forma di un puntuale e mai eterno evento), dunque, non si parla di altro che di qualcosa che è anch’esso solo una mera e vuota apparenza. Inevitabilmente essa stessa meramente relativa al mondo corporeo e sensibile (esso stesso astrazione). Cioè, per quanti sforzi si facciano per mostrare (con pensiero ironicamente sublime) il risvolto sublime ed insieme atroce della concezione metafisico-religiosa dell’essere (eternità), di fatto non si fa altro che parlare di mera consecuzione temporale. Con l’eternità come concepita da Eckhart, dice il Mieth, si tratta infatti di un «vero ora»,  e non di un «falso ora». Quest’ultimo infatti non è altro che terreno ed immanente (è perdutamente «aposterioristico», pur pretendendo di costituire tutto l’essere quale apparenza e svelamento).  E quindi, come si è visto, esso annulla l’onto-dinamismo proprio nel suo volerlo affermare. Ad esso manca infatti la simultaneità che è invece affermata solo nella continuità tra trascendente ed immanente. E così entro la concezione dell’essere come divenire non vi è alcun vero evento.

Evidentemente dunque l’evento quale essere è solo un’apparenza. Esso è solo la manifestazione puntuale (temporale ma in realtà solo spaziale) di un essere che è invece sempre solo eterno. Effettivamente diffuso ma affatto nel senso di una consecuzione sostitutiva. Come accade proprio nel divenire, in cui un momento sempre rimpiazza l’altro. Dando così l’impressione che non ci sia alcuna continuità di essere (essere statico e previo). Insomma, da Nietzsche ed Heidegger in poi, lo smascheramento iconoclastico dell’apparenza ontologica di fatto smentisce sé stesso. E ciò in quanto essa stesso è solo mera e misera apparenza. Più illusoria ancora di quella che con arrogante potenza di pensiero si intende sostituire.

L’eterno presente sul quale Nietzsche voleva in fondo solo scherzare (e con lui anche Heidegger) è in verità esattamente ciò che il termine ci suggerisce, ovvero piena ed incoercibile eternità.

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