Una città e il suo destino "filosofico"
Platone a Napoli
Il dito puntato di Platone nel celebre dipinto di Raffaello conservato al Museo Archeologico di Napoli rivela qualcosa della città: inseguire la vita è vivere in sé
Al Museo Archeologico di Napoli è esposto un mosaico del I sec. a.C. che raffigura la vita nell’Accademia di Platone richiamando così l’omonimo dipinto di Raffaello. In quest’ultimo campeggia il maestro circondato dai discepoli (come un Cristo, ma senza esserlo). Si dice che l’immagine simboleggi il cosiddetto «symphilosophein», e quindi la fondamentalità della dialettica dialogica. Ma a me sembra che ciò ci sia vero solo in parte. Molto in parte. Infatti, l’elemento più essenziale della complessiva immagine è il gesto di Platone, di cui però parlerò più avanti.
Ebbene, come platonico appassionato e convinto (in senso per antico e non moderno), ed ovviamente come napoletano, ho sempre pensato con gratitudine alla presenza di questa doppia immagine in un luogo così significativo della terra alla quale inevitabilmente mi legano profonde vene vitali ed emotive (evidenti ed occulte). Ma «pensato» non è l’espressione giusta. Perché per la verità non avevo mai davvero pensato a questo. L’avevo invece solo confusamente sentito. Tanto che nella mia testa le due immagini pittoriche si confondevano.
Sono stato portato a pensarci solo a partire da un aspetto del lavoro che vado svolgendo su Platone a margine della mia tesi di dottorato in filosofia. E peraltro non a Napoli, bensì nella lontana Lisbona. Si tratta in particolare di un passo di una fondamentale opera critica sul pensatore ateniese, e cioè un libro di Giovanni Reale (Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Milano, Rizzoli 2008, VIII p. 167-184). Qui si discute del senso da dare alla dottrina matematica di Platone. Che per la moderna ricerca critica (riduzionista) indicherebbe nel pensatore colui che affermerebbe da un lato la fondamentale importanza di una conoscenza molteplice del reale e dall’altro lato la fondamentale importanza del metodo dialettico come forma di conoscenza.
Entro la quale poi, per definizione, mai si parte da un sapere (previo) e mai ad alcun sapere strutturato si perviene. Ma sempre appunto si resta immersi (senza soluzione) entro un molteplice in perenne divenire. Discutere qui in dettaglio tutto questo è impossibile, per cui sono costretto a sorvolare. Ma va comunque detto che (secondo Reale) né l’uno né l’altro aspetto della moderna tesi critica è veramente fondato. Anzi essi sono entrambi estremamente fuorvianti. La verità è invece che la dottrina matematica di Platone è la più forte affermazione di una visione nella quale ne va solo dell’insieme. In un rinvio costante del molteplice all’Uno, e con ciò ad una suprema e compatta stabilità di essere che ha poi la forma di una Totalità di Realtà. Articolata poi in infinite relazioni armoniche, le quali, così come si richiamano incessantemente tra di loro, intanto rinviano perennemente a quell’Uno che è il Tutto stesso. Si tratta insomma di una sublime unità di particolari determinati tra loro interrelati (simile ad un’immensa rete multi-simbolica) entro la quale il numero (in modo pitagorico) delicatamente appena segna la ritmicità di una sublime armonia. Qui nessun determinato (incluso il numero) ha davvero valore senza il Tutto.
Una visione paradigmatica, questa, in cui una larghissima fetta della così boriosa filosofia moderna viene smentita e contraddetta (vedi i Simmel, Lèvinas, Marion, Derrida…).
Ebbene mi sembra proprio questo il senso del gesto con il quale, nel dipinto, il dito levato in alto di Platone indica perentoriamente l’Uno celeste e trascendente. Ma dato che tutto questo è richiamato proprio a Napoli (ed in un suo luogo così fortemente significativo) bisogna proprio chiedersi che senso tutto ciò abbia per la città e la terra. Il senso, credo che possa essere quello che si può cogliere, come italiani, al cospetto della tomba di San Francesco nel tenebroso ipogeo della Basilica inferiore di Assisi. È la netta e chiara intuizione di essere alla presenza di un assoluto centro irradiante. Ed un centro è sempre qualcosa che raccoglie e riunifica il disperso donando ad esso senso. Ma dove, se non al di sopra della dimensione orizzontale su cui giace il disperso, e cioè in alto rispetto ad esso, può trovarsi l’unità alla quale questa riunificazione riconduce? E ciò non può essere che sintesi. Ma la sintesi sempre anche sfronda («aphàiresis» plotiniana). Sfronda ciò che è evidentemente superfluo – il molteplice nella sua accezione negativa di esistente solo quale fine-a-sé-stesso. Lasciamo ora stare le implicazioni mistico-religiose di tutto questo, e soffermiamoci invece solo su quelle civili di genere estetico e morale. Che significato può avere questo per un luogo fatalmente tragico nella sua doppiezza (sempre teso allo spasimo tra luce e tenebra, tra diurno e ctonio, tra paradisiaco ed infernale, tra apollineo e dionisiaco, insomma tra bello e brutto e tra bene e male)? A mio avviso può solo significare che bisogna incessantemente cercare una profonda cifra segreta negli eventi dispersi.
E mi sembra che il nucleo di questo atto possa consistere proprio nel soffermarsi su quello sfrondare che è della riconduzione ad unità. E ciò indica inevitabilmente qualcosa di brutale, oltre la felicità dell’ascesa che intanto eleva e segrega dall’accecante e soffocante immersione nel sempre così dilaniante molteplice. Il che ci rinvia poi ad una valenza salvifica del complessivo atto, che però trascende la stessa opposizione tra il senso estetico-morale dell’elevazione e il senso del permanere in basso. Entrambe fatalmente affette dalla divisione tra bene e male e tra bello e brutto.
Dunque starebbe proprio in tale misteriosa salvificità il valore dell’unità che è più rilevante da un punto di vista civile, una volta posto in relazione a criteri estetico-morali. Ma rivolgersi ad essa deve significare sempre cercare e mai trovare.
Per chi è in qualche modo esistenzialmente legato ad un luogo come Napoli (e quindi ci vive spiritualmente), ciò significherebbe allora che si può proprio in tale modo sublime rintracciare una prospettiva perseguibile. Non si tratta affatto di una ricetta concreta ed attuale – nessuna contraddizione è qui infatti risolta o anche abolita. Si tratta invece forse solo del perenne pensare Napoli come un luogo in cui si è richiamati costantemente (con tutta la tragicità che ciò comporta e non evita) alla possibile salvificità cui può alludere la sola riconduzione ad unità tout court.
È insomma il costante ma muto e virtuale rinvio ad un viatico spirituale-esistenziale, ad un compito (molto simile alla sempre concretamente improduttiva preghiera): quello di non perdere mai di vista l’utopia che sta alla sommità del nostro quotidiano esistere. Ancor più nei luoghi tragici. Dunque perseguirla e basta, senza aspettarsi nulla di immediatamente concreto.
Per Napoli si tratterebbe allora di vedere la salvificità proprio nell’ineluttabile invariabilità (metafisica) del luogo rispetto ad aspettative storiche di tipo medio (cioè ragionevoli). Qualcosa di nietzschiano-dionisiaco ed insieme cristico-apollineo. Si tratta infatti di una salvificità assolutamente impermeabile ad idee superficiali e criteri e giudizi morali troppo netti, e quindi tutti fatalmente impari al mistero nella sua integralità.