Periscopio (globale)
L’incubo di Pasolini
Grazie a una nuova messinscena (di Federico Tiezzi) torna l'attenzione su "Calderon" di Pasolini: un apologo doloroso sul fallimento finale della borghesia e del suo "sogno" intellettuale
Al teatro Argentina di Roma è andato in scena, fino all’8 maggio, il Calderón di Pier Paolo Pasolini, nell’allestimento della compagnia Tiezzi-Lombardi. Si tratta di un testo che, nonostante la sua complessità e l’apparente sganciamento dall’attualità politico-culturale, può vantare una storia di messinscene illustri, fra cui quelle di Luca Ronconi nel 1978 a Prato e nel 1993 a Torino, e quella di Giorgio Pressburger nel 1980 a Pordenone.
Opera emblematica del “teatro di parola” pasoliniano – teatro poetico e antinaturalistico per eccellenza, avulso dalla nostra tradizione drammaturgica –, Calderón induce ad alcune considerazioni sugli intenti dello scrittore, quando tra il 1966 e il 1973 decise di dedicarsi al teatro. Anzitutto, Calderón va letto tenendo presente un testo parallelo, per certi aspetti quasi gemello, Affabulazione, di cui si ricorderà un’intensa interpretazione di Vittorio Gassman nel 1977. Affabulazione è una metafora dell’autodistruzione della vecchia borghesia (il padre industriale e conformista), che reagisce al suo progressivo isterilimento tentando di assorbire le esperienze dei figli, contestatori ma altrettanto conformisti. La sua sconfitta come individuo coincide, dunque, con la creazione di una nuova classe sociale, che della vecchia borghesia perpetua i valori, privilegiando quelli pragmatici e moderni, più sottilmente mistificatori di quelli tradizionali. Nella sua ansia di autodistruzione e autoumiliazione, il padre crede di essere sconfitto, ma in realtà la sua individualità – in quanto classe – rimane pienamente egemone, riesce anzi a mascherarsi meglio, producendo la restaurazione di un principio paterno verso il quale i nuovi borghesi (i contestatori) sanno già di dover tornare.
La metafora, di per sé limpida, a Pasolini tuttavia non bastò: sugli stessi argomenti ritornò appunto con Calderón, opera che gli consentì, grazie al palinsesto calderoniano, un maggiore distacco e una minore identificazione con la figura paterna e nella quale riuscì a oggettivare meglio le sue tensioni. Così come aveva fatto con le Trachinie di Sofocle in Affabulazione, Pasolini fece in modo che i riferimenti a Calderón e al suo dramma più famoso, La vida es sueño, fossero molteplici e non si riducessero alla creazione di un quadro di riferimenti teorico per lo spettatore colto.
Le corrispondenze fra Calderón e La vida es sueño non sono quindi mai meccaniche o esteriori. Pasolini sfrutta del testo archetipico le dimensioni allegoriche che caratterizzano i personaggi maggiori e ne mutua i concetti fondamentali (l’isolamento, il sogno come fuga, il disinganno finale), reinterpretandoli alla luce della propria coscienza critica.
Dei personaggi calderoniani compaiono qui solo Rosaura, Segismundo e Basilio, sebbene privati, come avviene in tutto il teatro pasoliniano, di spessore psicologico. In questa sede non c’è spazio per raccontare lo svolgimento del dramma: basti dire che Calderón può essere suddiviso in tre parti, tra le quali vige un rapporto di similarità, se non proprio di ripetizione: nei tre casi la protagonista, Rosaura, si desta da un sogno e non riconosce l’ambiente e le persone che la circondano. Nella prima parte la ragazza è ricca, fa parte dell’alta borghesia madrilena; nella seconda è una prostituta dei quartieri poveri di Barcellona; nella terza una piccolo-borghese moderatamente progressista. La sua traiettoria è però sempre uguale: al risveglio dal sogno segue un periodo di confusione e di ripensamento critico che conduce a uno scioglimento inaspettato – l’agnizione fra Rosaura e Sigismondo nella prima parte, quella fra Rosaura e Pablo nella seconda, e infine il rinvenimento, illuminante, del contenuto del sogno nella terza – che non chiude la vicenda narrata, ma la lascia aperta a ogni possibile sviluppo, reso del resto inessenziale dall’evidente primato che Pasolini assegna alla trasmissione del messaggio ideologico.
Ci limitiamo a ricordare il penultimo episodio: si svolge all’interno di un lager e riassume il tema portante del dramma. Basilio dà ordine di ridestare Rosaura dal suo lungo sonno: ora Rosaura potrà finalmente ricordare il suo sogno e dovrà confrontarlo con il vissuto quotidiano. Il contenuto del sogno è appunto la vita nel lager, scandita dal terrore e dalla maniacale coazione a ripetere atti di offesa e di umiliazione, fino al momento in cui irrompono nel capannone nugoli di operai che, fra canti e bandiere rosse, liberano i prigionieri. La visione apocalittica sembra dissolversi e lasciare spazio a un’esortazione alla speranza, ma basta un’osservazione di Basilio, re e padre-padrone, a frenare gli entusiasmi, a ghiacciare e deturpare l’immagine di un mondo migliore, nel segno dell’inevitabile discesa agli inferi: «Un bellissimo sogno, Rosaura, davvero / un bellissimo sogno. Ma io penso / (ed è mio dovere dirtelo) che proprio / in questo momento comincia la vera tragedia. / Perché di tutti i sogni che hai fatto o che farai / si può dire che potrebbero essere anche realtà. / Ma, quanto a questo degli operai, non c’è dubbio: / esso è un sogno, niente altro che un sogno».
In Calderón, come più tardi in Salò-Sade e nel romanzo postumo Petrolio, Pasolini giunge a negare ogni speranza nella rivoluzione e nella bellezza quali momenti catartici della storia, poiché il processo di omologazione, cui soprattutto i giovani sono stati sottoposti, ne ha vanificato ogni possibilità.
La sua provocazione si rivolge soprattutto a quella porzione di pubblico che ha dalla sua una cultura e una formazione di base adeguate, vale a dire i ceti borghesi. In un certo senso, l’aporia di Pasolini sta nel dover attaccare l’unico interlocutore possibile, se vuole trovare uno spiraglio all’espressione che preme alle porte della coscienza. Questa stessa dissociazione è rispecchiata nella prima parte, dove Rosaura è figlia di un esponente della rivoluzione fallita e di una donna borghese, che, al pari della sua classe, si è adattata a vivere all’ombra del franchismo, ha tramutato cioè il proprio conservatorismo latente nell’adesione esplicita a un regime totalitario. Non a caso, l’unico personaggio visto con umana simpatia è Manuel, il diverso, colui che intuisce la sofferenza di Rosaura e cerca di manifestare la sua scoperta nei ristretti spazi che l’omertà del mondo circostante gli concede.
Che l’aporia di cui dicevamo riguardi anzitutto il linguaggio è confermato dalla terza parte del dramma: l’apprendimento linguistico di Rosaura, l’assimilazione dei modi del parlare e quindi la rinuncia all’afasia coincidono con la deliberata soppressione della verità, ricondotta ai termini del dicibile e in tal modo svuotata di ogni reale significato. Lo stesso potenziale dirompente della cultura e della riflessione può essere neutralizzato, ridotto a mera propagazione dei valori sanciti dalla maggioranza (o da una minoranza egemone); nella prima parte del dramma, la similitudine con Las Meninas di Velázquez sta soprattutto nel fatto che Pasolini si trova, come il pittore spagnolo, all’interno del quadro, all’interno della realtà deprecata. Incluso nel quadro, Pasolini è però allo stesso tempo (come Velázquez con il suo indefinibile sorriso) un escluso, e vive la sua condizione contemplandola e teorizzandola al contempo. Le conclusioni cui giunge sono note: il figlio borghese, autoemarginatosi per scelta e necessità dal consesso della società civile, non può né tornare a integrarsi in esso, né lottare davvero per una trasformazione radicale. La sua reazione è sacrosanta, rappresenta l’unica testimonianza di un anelito di libertà in un mondo asservito a teoremi totalitari, ma in nessun caso potrà arridergli una vittoria, nemmeno parziale: al massimo può tentare di sopravvivere con un’accorta strategia di depistaggio e dissimulazione. Il vero vincitore è il padre, la figurazione eterna e indistruttibile della borghesia, che conosce a fondo i meccanismi del potere ed è in grado di servirsene.
In questo schema ideologico il sogno rappresenta l’ultima spia della coscienza, il luogo dell’alterità e della libertà, ma anche l’unico rifugio rimasto al diverso. Qualunque rivolta diventa invece inutile e controproducente, determina tutt’al più una ridistribuzione degli elementi all’interno della classe egemone; ma la nuova disposizione che ne risulta testimonia ancora una volta dell’inesausta capacità di assimilazione della borghesia.
Pasolini sottolinea la frattura, già più volte denunciata, fra parole e cose, fra individuo e mondo circostante, e tuttavia si serve dei concetti di afasia e d’integrazione non per esaltare la posizione di chi dissente, ma per dimostrare che quello della vittima e quello dell’aguzzino sono ruoli speculari, nei quali di volta in volta ciascuno può riconoscersi.
Lo scrittore borghese che dissente è un prodotto della stessa classe sociale che intimamente disprezza e condanna; e anche l’aver scelto il nome proprio di un drammaturgo come titolo del dramma indica la volontà di non eludere il problema per lui principale, quello della collocazione dello scrittore e della scrittura nell’universo metateatrale del vissuto quotidiano.