Betocchi a trent’anni dalla morte
La poesia è carità
Per Carlo Betocchi esser poeti «è dimenticare se stessi per l'altro da sé, che è diverso da noi e che stringe insieme tutte le cose in un comune amore». Così in un’intervista del 1982 che riproponiamo in memoriam, mentre il Gabinetto Vieusseux di Firenze gli dedica domani un incontro
Era il 1982. Ero una giovane aspirante giornalista, non ancora praticante. Ebbi la fortunata occasione di curare per le gloriose pagine settimanali della Cultura del “Il Tempo” dirette da Antonio Altomonte (pagine che molto contribuirono a sdoganare in quegli anni il quotidiano romano da un troppo insistito retaggio di destra), una rubrica che si intitolava “Nostro Novecento”. Incontri e parole memorabili di tanti personaggi che avrebbero molto contribuito alla mia formazione, non solo professionale. Tra le tante interviste spicca per intensità (e non per merito mio) quella fatta, appunto in quell’anno, a Carlo Betocchi, il poeta de L’estate di San Martino, di Un passo, un altro passo. Il suo dire poetico mi colpì come fossi in ascolto di un canto che si espandeva, come mi trovassi ai tempi di Omero. Così ci piace celebrare questo nostro grande poeta – scomparso il 25 maggio di trent’anni fa – riproponendo quella intervista ai nostri lettori.
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A 83 anni, Carlo Betocchi, “poeta del sensibile”, non appare raccolto nella sua vecchiaia. Non impersona neppure quegli aspetti saggi o profetici che di solito accompagnano l’aumentare degli anni. Il suo sentire non è attutito o distaccato, e il suo essere tra le cose è acceso e vivace, attento al mutare del più piccolo dettaglio. Viene in mente allora che questo non è strano, ma che proprio l’esser poeti obbliga a una presenza costante, al di là degli anni, del tempo che scorre.
Ma Betocchi, senza lasciarmi il tempo di formulare questo pensiero, mi dice: «Quando mi si chiama poeta non mi si fa un piacere. Io non sono uno che dice di esser poeta. La poesia è nata da sola. I poeti in genere, o quelli che si sentono poeti, credono di essere necessari. Ma la poesia è solo un tipo di sofferenza che si esprime in un dato modo per alleviare altre pene, fatiche, per dar loro un aspetto diverso. Come dopo aver corso si suda, così la poesia non è che un sudore, una secrezione del nascosto, dell’incognito nostro. La poesia non è certo più delle stelle, che non hanno la parola ma sono una delle cose più innocentemente stupende ed espressive che si possa vedere; non è più di un masso che precipita in qualche punto, o delle onde che avanzano, o di qualunque altra cosa che nell’universo avvenga, di cui siamo fratelli nella vita. La poesia non è che il frutto del dimenticare se stessi per l’altro da sé, che è diverso da noi e che stringe insieme tutte le cose in un comune amore che dovrebbe interessare tutti e tutto, compreso ciò che si crede non avere anima.
«Questo amore è il senso di carità con cui si riesce a vivere e per cui si riesce a fare attenzione all’altro. Si può fare una poesia su un sasso ed esprimere cose umanissime, proprio perché il sasso le esprime se viene guardato con carità. Mi è capitato spesso durante gli scavi, nelle miniere, di essere invaso da un’immensa tenerezza per quel sasso che, sottoposto alla pressione dell’esplosione, precipitava dall’alto senza poter resistere alla forza di gravità. Allora ho provato pietà dei sassi. Bisogna provare pietà di tutto, carità per tutto. Siamo vicini a tutte le cose, in quello che si chiama universo; viviamo un’esistenza accomunati in una medesima sorte, che a un certo punto può cessare o ricominciare, magari dopo un’altra esplosione. La poesia è questo, il dono ricevuto di sentire se stessi nulla, quanto uguali a tutto il resto che esiste e che ha valore uguale al tuo. Senza il resto del mondo non si è, non si esiste. Se davanti a questa mia finestra non ci fossero questi tetti, così presenti nelle mie poesie, se non si potesse rimanere affascinati da loro, io quelle poesie non le avrei potute scrivere. E infatti le hanno scritte i tetti, non io. Ecco perché non mi si deve chiamare poeta. So benissimo di essere niente, niente più di un filo d’erba, nulla più delle mille cose che esistono in questo mondo».
È stato detto che a nessun poeta del nostro tempo sia riuscito come a lei il miracolo di identificare la propria vita nella poesia, e ancora che la sua poesia non ha mai risentito di una “volontà di costruzione”. È vero?
«Sì, proprio perché la propria vita non è che parte della vita degli altri, senza che ci si possa sentire diversi da nulla, né maggiori di niente. Tantomeno perché ci si senta chiamati alla poesia. Quando si riecheggiano certi modelli, o si ritrovano modi di dire, non si coglie altro che un’esistenza altrui, passata o trapassata, che a sua volta si sentiva nulla di fronte al resto. Quello che sempre rimane è solo la possibilità di volgere lo sguardo intorno per restare immediatamente colpiti dall’autenticità, dalla singolarità, dall’esistenza di tutte le cose: esse non aspettano altro che la carità di chi riesca a raccoglierle e a tradurle nelle parole di questo popolo che è il popolo degli uomini. Non certo più importante del popolo delle erbe, o degli alberi, o delle onde fluttuanti, lontane verso altri emisferi, che lambiscono e baciano tutte le spiagge. Sappiamo noi baciare tutte le spiagge?».
Come muta negli anni l’ispirazione poetica, come viene a modificarsi lo slancio creativo?
«Si modifica involontariamente. Forse nel tempo si pongono gli accenti su cose diverse. Ma non so dirlo neanch’io, perché certe volte d’improvviso ringiovanisco in un modo che anche a me pare incredibile. Anche questo non dipende da me, né da cose scelte dall’uomo, ma piuttosto da cose scelte dalla natura che tutto ordina. Ed è questo ordine che fa sorgere l’impeto della carità, la quale pone l’accento sulle cose dell’universo che noi cerchiamo, attraverso il linguaggio ricevuto, di tradurre in poesia. Io credo di aver ampliato, nel tempo, sempre di più il mio sentire, cioè che non esisto se non nella capacità di intendere l’universalità dell’esistere. Certo cade su questa circostanza il fatto che io invecchio, e sto per perdere la possibilità di dare l’accento a questo modo di sentire. Così questo accento muta diventando coscienza della non perennità del mio sentirema della caducità del mio conoscere. Comunque si dovrebbe poter riuscire a dare carattere di poesia anche alla caducità del conoscere, ma non attraverso la cultura, assolutamente mai attraverso la cultura, soltanto con tutta l’umanità dell’uomo, capace, attraverso la carità, di spendere se stesso a favore del resto. Intendere la cultura come estrema finalità dell’uomo è uno sbaglio; è una concezione soprattutto umana, quindi troppo povera. Capisco che ci sia chi si dedica alla cultura in modo serio e impegnativo, ma vorrei che questo orientamento si accompagnasse sempre alla dimenticanza di se stessi nell’intimo del cuore. Sapere perché anche il resto sappia».
Quali relazioni vede tra natura della poesia e religiosità?
«Quelle che nascono da concetti universalistici, come la fraternità per esempio. Che cosa sentire nel Cristo che si pone in croce se non tutta la vicenda dell’essere delle cose? Si offre lui stesso a quella totalità che le fa tramontare, precipitare. Cristo è la carità fatta persona. Io non parlo mai esplicitamente di religione nelle mie poesie, ma la si sente quando intendo parlare di quel trasfondere se stessi quanto più si può nel resto, o meglio trasfondere il resto in se stessi come atto di restituzione, di ringraziamento. Così la poesia è un atto di ringraziamento, è come un abbraccio attraverso la parola. Ma queste cose non si esprimono facilmente, perché prima di tutto bisogna dimenticarsi di sé, e alla fine questa dimenticanza termina nell’unico modo possibile, nella prosa della vita: al cimitero. Bisogna spendere se stessi fino alla morte, morire è felicità perché ci si restituisce all’universo».
Le sue più recenti poesie sono sembrate come il risultato di un cambiamento, quasi un rovesciamento, avvenuto in lei.
«Non sono d’accordo con questa notazione. Piuttosto nell’ultima parte delle mio lavoro ho voluto porre l’accento sulla facilità con cui purtroppo la maggior parte dei cattolici crede che ci sia un Dio fatto apposta per loro. Non è così secondo me. Perché Dio dovrebbe riguardare soltanto la natura umana, che oltretutto è quella eletta, secondo la dottrina cattolica? Cristo, come ho detto, si è fatto mettere in croce per tutto l’universo. Così Dio, che Dio sarebbe se non fosse lui stesso a vivere nella trasformazione dei mondi, nell’esplosione dei mondi nuovi e dei futuri universi? Dio non può essere eterno che così. C’è troppa gente che crede di essere sulla via della salvezza, che fa di Dio qualcosa a sua misura, come un armadio in cui mettere i vestiti buoni. Come se Dio fosse misurabile!».
Lei si è trovato nella vita più volte a cambiare mestiere. Come ha convissuto la sua ispirazione poetica con le responsabilità del lavoro?
«Ho fatto tanti mestieri, meno l’uomo di cultura, se non inteso, come dicevo, a modo mio, come restituzione di grazia, come tecnica dell’operare secondo ragione, propria della natura dell’uomo, cercando di usarla nel senso giusto. E i molti lavori hanno sempre arricchito l’ispirazione, per la grande pietà che tutto mi faceva – vedere tanta gente che pativa più di me -insieme alla grande allegria di vedere gli uomini, i poveri più dei ricchi, accogliere e capire la fraternità che li legava a tutto l’universo. Io sono un passeggiatore di strade che non si sa come, non si sa perché, ha lasciato qua e là delle impronte. Non perché volessi fare il poeta, non ci pensavo nemmeno. La prima poesia la scrissi mentre andavo a misurare il pietrisco di una strada che va da Arezzo a Siena; scendevo in bicicletta e guardai il cielo che quel giorno era stupendo. Guardai il cielo e vidi,e questo è il primo verso della prima poesia che ho scritto».
Sta per uscire da Mondadori la sua opera completa. La spinge a trarre qualche bilancio in tempi che sembrano così distanti dalla poesia?
«Nessun bilancio se non il pensiero della fatica che compiono i curatori a sistemare tutto. L’edizione è stata affidata al professor Luigi Baldacci, che ne è il regista, e alla signora Luigina Stefani, che è di un’abilità eccellente e di una pazienza esorbitante. Io non sono così entusiasta, a causa del disordine che inevitabilmente è stato fatto nel mio studio. Comunque sono riconoscente di questa gentilezza che mi vuole usare l’editore che forse devo anche al fatto di aver ricevuto da Pertini la Penna d’Oro. Certo il mondo attuale non ha dimestichezza con la poesia, che per molti è diventata un po’ come un quiz, come quelli che si trovano sulle pagine dei giornali. Ma sono sicuro che quelli che sono veramente poeti continueranno a trovare la via giusta».
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Domani, 25 maggio, al Gabinetto Vieusseux di Firenze (Palazzo Strozzi, Sala Ferri, ore 17), nel trentennale della morte, Carlo Betocchi sarà ricordato con “Tetti del cielo”, un testo scenico di Marco Marchi, musiche di Giovanni Battista Viotti, voce recitante Fabio Baronti. Interveranno Antonia Ida Fontana e Gloria Manghetti.