Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

La pipa di Bulgakov

Ode al "Maestro e Margherita", il romanzo infinito di Bulgakov, scritto contro tutto e contro tutti, quasi come una missione (letteraria) alla quale è difficile sottrarsi

Cinquant’anni fa era pubblicato, per la prima volta, Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, scrittore scalognatissimo, bersagliato dal sistema e, una volta, persino graziato da Stalin. Disse di sé, in una lettera al dittatore, che era «finito, inutile per la patria» a causa della crescente ostilità da parte della letteratura di Stato, poi dipinta ferocemente nel circolo del MASSOLIT, associazione letteraria sovietica che, nell’esposizione dei fatti, ha sede presso la Casa Griboedov.

Il Maestro e Margherita è un romanzo assolutamente geniale – Montale lo definì «un miracolo che ognuno deve salutare con commozione» – per la qualità narrativa, l’ariosa struttura, la sapiente commistione di stili e registri (si passa dalla satira alla mistica, dal giallo metafisico alla commedia, dal grottesco al sublime). La storia è semplice. Woland (alias satana) arriva a Mosca a creare scompiglio con i suoi temibili sgherri: il valletto Korov’ev, soprannominato Fagotto, un ex-maestro di cappella sempre agghindato con abiti ridicoli, il gatto Behemot, arguto e sfacciato, il sicario Azazello. Da notare che, oggi, a Mosca, agli stagni Patriaršie, dove è ambientata la prima scena del romanzo, c’è un cartello con le figure corvine degli scagnozzi di Woland e la scritta «Attenti a quei tre». A simboleggiare la potenza immaginifica della letteratura, che talvolta riesce a invadere il reale, oltre che a scardinarne l’ideologia.

Nel mezzo, dunque, di una Mosca impazzita tra spettacoli di magia nera, folli supposizioni, sostituzioni improbabili ma poi sempre razionalmente spiegate (quasi a intendere che anche il male ha una sua logica), campeggia la struggente storia d’amore tra il Maestro e Margherita, unica alternativa al male, intervallata dal romanzo collaterale del Maestro: romanzo dentro il romanzo, è la storia di Jeshua, il Crocifisso, narrata, a suo modo e mirabilmente, da Levi Matteo. L’amore tra il Maestro e Margherita è un colpo di fulmine a ciel sereno, un incontro da pugno al cuore. Ecco il racconto che il protagonista, in manicomio, fa al poeta Ivan Bezdomnyj:

«Ella aveva in mano orribili fiori gialli inquieti. Non so come si chiamino, ma sono sempre i primi ad apparire a Mosca. Questi fiori si stagliavano nettamente sul suo soprabito nero primaverile. Aveva fiori gialli! Un brutto colore. Dalla Tverskaja svoltò in un vicolo e si voltò. Conosce la Tverskaja, no? Lungo la Tverskaja camminavano migliaia di persone, ma le garantisco che ella vide me solo e mi guardò, non dico preoccupata, ma addirittura in un certo qual modo morboso. Fui colpito non tanto dalla sua bellezza, quanto dalla straordinaria, mai vista solitudine nei suoi occhi! Ubbidendo a quel richiamo giallo, anch’io svoltai nel vicolo e la seguii. Camminavamo in silenzio lungo il vicolo triste e storto, io da un lato, lei dall’altro. E si figuri che non c’era anima viva. Mi tormentavo perché mi sembrava che fosse necessario parlarle, e temevo che non sarei riuscito a pronunciare neppure una parola, e lei se ne sarebbe andata, e non l’avrei mai più rivista. E s’immagini, a un tratto fu lei a parlare:

– Le piacciono i miei fiori?

Mi ricordo chiaramente il suono della sua voce, alquanto bassa, ma con brusche variazioni di tono, e – è sciocco, lo so – parve che un’eco risuonasse nel vicolo e si ripercuotesse nel muro giallo e sporco. Passai in fretta sull’altro marciapiede e, avvicinandomi a lei, risposi:

– No. Mi guardò sorpresa, e, di colpo, in modo del tutto inatteso, sentii che per tutta la vita avevo amato proprio quella donna! Che storia, eh? Lei dirà, naturalmente, che sono pazzo.

– Non dico niente, – esclamò Ivan, e soggiunse: – La supplico, continui!

L’ospite continuò.

– Sì, mi fissò sorpresa, e poi, dopo avermi fissato, chiese: – Non le piacciono i fiori?

Nella sua voce mi parve sentire dell’ostilità. Le camminavo accanto, cercando di tenere il passo, e, con mio grande stupore, non mi sentivo affatto imbarazzato.

– No, mi piacciono i fiori, ma non questi, – dissi.

– Quali le piacciono?

– Le rose.

Rimpiansi le mie parole, perché lei ebbe un sorriso contrito e gettò i suoi fiori nel rigagnolo. Li raccattai, un po’ confuso, e glieli porsi, ma lei, sorridendo, li respinse ed essi mi rimasero in mano.

Camminammo così, silenziosi, per un po’, finché lei non mi tolse i fiori di mano e li gettò sul selciato, poi infilò sotto il mio braccio la mano col guanto nero svasato, e proseguimmo vicini.

– E poi? – disse Ivan. – Per favore, non salti niente!

– E poi? – l’ospite ripeté la domanda. – Quello che successe poi, lo può indovinare lei stesso. Inaspettatamente il Maestro si asciugò una lacrima con la manica destra, e proseguì: – L’amore ci si parò dinanzi come un assassino sbuca fuori in un vicolo, quasi uscisse dalla terra, e ci colpì subito entrambi. Così colpisce il fulmine, così colpisce un coltello a serramanico!».

Michail BulgakovBulgakov inizia a scrivere il romanzo sin dal 1928, prendendo spunto dal Faust di Goethe (l’epigrafe all’intera opera è tratta proprio dal Faust, «Allora chi sei tu, insomma? Sono una parte di quella forza che eternamente vuole il male ed eternamente compie il bene») ma la prima versione – come spesso accade nella tormentata letteratura russa, si veda Gogol’ e compagnia – è distrutta, bruciata nell’immancabile stufa degli scrittori dell’est. È il marzo del 1930 e Bulgakov viene informato dell’incipiente censura che sarebbe spettata alla sua opera per via del contenuto cabalistico. Lacerato dai rimorsi e dall’isolamento letterario in cui versa, si rimette al lavoro nel ’31, fregandosene della censura e completando così la seconda redazione, il cui intreccio è molto prossimo a quello definitivo. La terza scrittura è approntata nel ’37, ma Bulgakov continua a mettere mano al romanzo e a “rifinirlo” (il fondamentale labor limae oraziano) con l’aiuto della moglie Elena Sergeevna Šilovskaja. Smetterà di lavorare sulla quarta stesura solo quattro settimane prima della sua morte, improvvisa, nel 1940. Il Maestro e Margherita sarà, dunque, ultimato da Elena Šilovskaja nel ’41, la quale – come molte, deliziose mogli di scrittori russi – lavorerà sulla memoria di ciò che disse e volle il marito.

Per la prima volta, tra il novembre del 1966 e il gennaio del 1967, appare sulla rivista Moskva una versione censurata del romanzo: più del 10% dell’opera è eliso e una cospicua parte modificata. Il chiarore vince sull’oblio: è un prodigio. Gli stralci censurati e ritoccati, a uso e consumo del sistema, sono pubblicati come samizdat, insieme a tutte le indicazioni dei punti in cui il romanzo era stato “corretto”. Nel 1967 la casa editrice Posev di Francoforte mise sul mercato l’opera completa basata sui bozzetti dei samizdaty. Da qui incomincia l’incredibile successo del capolavoro bulgakoviano, che oggi è, a ragione, considerato tra i maggiori romanzi del secolo appena trascorso e, probabilmente, di sempre. Una domanda di non poco conto si impone, alla luce della traversie e delle lacerazioni di cui sopra: quando Bulgakov scriveva senza speranza di pubblicazione – perché sì, scriveva senza speranza –, per chi scriveva?

Ogni volta che rifletto su questo terribile quesito, mi viene in mente sempre il bel volto di Bulgakov, pettinato, chino sul manoscritto, nottetempo, al lume di candela, la pipa fumante e un bel bicchierone di vodka sul tavolino intarsiato. Elena Šilovskaja lì vicino, ammirata, lei stessa oggetto di ammirazione. Michail non aveva alcuna possibilità che gli pubblicassero il romanzo. Poteva ragionevolmente pensare che il frutto del suo lavoro – e che lavoro… – sarebbe arso, nuovamente e definitivamente, tra le fiamme. Adnosco veteris vestigia flammae. Ma: «i manoscritti non bruciano».

Perché tutta questa manfrina in nome dell’Arte? Non aveva pubblico, né miraggio di pubblico. Per chi stava scrivendo? Non so. Nemmeno lui lo sapeva. Forse per sé, per sua moglie, che ha custodito gelosamente, per anni, nell’animo e nel corpo il manoscritto. Sta di fatto che si scrive, credo, presupponendo sì un pubblico, ma non solo per questo. Scrivere è un’esigenza, una diversa forma di vita e di respiro. Si scrive anche per passeggiare nella scrittura. Per prendere, ogni tanto, una boccata d’aria. Possibilmente, sillabica.

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