Al Macro di Roma
Il tempo passa?
Una mostra cerca di cogliere il senso (artistico) del tempo: entità astratta che si fa concreta nel dare senso ai nostri sogni e ai nostri incubi. Dall'eternità alla morte
Strana creatura, strana bestia selvatica, il tempo. Ti vive accanto ma non si fa addomesticare. Cerchi di accarezzarlo e tocchi il vuoto. Più che un fantasma, è come l’uomo invisibile dei fumetti e dei film. Senti che esiste se ci sbatti contro. Perché il tempo non è mai dove dovrebbe essere. Ma c’è. È nelle nuove rughe che ti scopri allo specchio. È negli amici che muoiono: il loro tempo è finito, e ti ricordano che prima a poi tocca a te. Per riconoscerlo, renderne manifesta la presenza, proprio come succede all’uomo invisibile, devi aspettare che il tempo si rivesta. O confezionargli degli abiti apposta: cos’altro sono gli orologi, i calendari, i libri di storia, le iscrizioni sulle lapidi dei cimiteri? Afferrare non lui ma le tracce che il suo transito si lascia alle spalle o disegna nel cielo. È il trucco a cui gli artisti, i più attrezzati forse a dar voce all’invisibile, sono sempre ricorsi.
Sono le riflessioni che mi ero appuntato uscendo da una mostra al Palaexpo che nel Duemila Renato Nicolini, che allora era presidente del museo, volle dedicare al tempo, a quel suo compleanno in cifra così tonda, così carica di echi e di attese. Le stesse riflessioni che mi riaffiorano visitando oggi un’altra mostra sullo stesso tema, meno pretenziosa forse ma ben fatta che due curatrici doc, Antonella Sbrilli e Maria Grazia Tolomeo, hanno confezionato per il piano nobile del Macro, dove terrà cartellone fino al 2 ottobre. Un titolo più morbido, Dall’oggi al domani, che richiama un’unità di misura facilmente leggibile come lo scorrere e la durata di un giorno. E un campionario più ridotto e aggiornato di autori e di opere. Ma in fondo un identico responso finale di scommessa perduta in partenza, di caccia a un miraggio che si materializza in visione non per quel che è ma per quello che sembra, attraverso le orme che lascia impresse nella sabbia e gli strumenti con cui siamo abituati a contarlo.
Non proprio un deja vu. Perché il tempo immutabile muta. Almeno per chi è più attento a registrarne il passaggio e le conseguenze che innesca. E sedici anni dopo ci è più facile annotare l’abbaglio che quella celebrazione di compleanno in qualche modo autorizzava e sanciva per il popolo smarrito e modaiolo dell’arte. L’illusione che il lasciarsi alle spalle il Novecento aprisse le porte più che a un nuovo anno, a un nuovo secolo, addirittura a un nuovo Millennio. Un orizzonte che avrebbe dovuto separare per sempre il prima e il dopo: contemporanei solo gli autori proiettati nel e oltre il Duemila, scadute come residui di frigorifero tutte le tecniche precedenti, tradizionali; validi e attuali solo i linguaggi giovani legittimati dalla supremazia della scienza , della ragione, delle nuove tecnologie di comunicazione. Anche quelli usa e getta. Perdendo di vista l’uomo, la Storia, figuriamoci il buon gusto. E soprattutto il tempo che certo scorre in avanti, ma è trama, come ci ha insegnato Vico, di continui ed eterni ritorni.
Errori e rimozioni cui la mostra del Macro cerca a suo modo di porre rimedio. Non è un caso che ad aprirla e a chiuderla siano due prove di pittura, genere dato in via d’estinzione. Si inizia con un bellissimo studio inizio Novecento di Duilio Cambellotti che insegue in tre riquadri il mutare del giorno dall’alba alla notte. Segue un raro quadretto futurista di Giacomo Balla, che cerca di catturare – ci spiega il titolo – il tragitto di un istante. E si finisce con una tela di Sandra Giovannoni, datata 2009 dedicata a villa Borghese, uno scorcio del parco in un ferragosto di sei anni fa.
E tutt’altro che casuale è il fatto che a smentire la parola d’ordine del nuovo ad ogni costo, gran parte degli autori convocati siano tutti o quasi registrati all’anagrafe del secondo Novecento, tutti o quasi a vario titolo abitanti di quel territorio di esplorazione dischiuso dall’arte povera, dal minimalismo concettuale, dalla necessità postsessantottina di cominciare a cambiare il mondo ribattezzandone il linguaggio e gli oggetti. La parola o i numeri che ne sono una delle tante appendici come rivoluzionaria bussola di senso.
C’è l’arazzo tessuto a mano in Afganistan sul quale Alighiero Boetti alla fine degli anni Settanta fa ricamare la scritta che presta il titolo a questa mostra, Dall’oggi al domani, incasellando lo scorrere del tempo in un mosaico di coloratissimi tasselli. C’è la bacheca in cui lo stesso Boetti seguendo con talento le orme di Duchamp raccoglie un campionario di orologi le cui lancette registrano solo gli anni. Ci sono le grandi tele che negli stessi anni Gianfranco Baruchello, artista filosofo ancora sugli altari, riempie di figurine, minute, pensieri vignette, schiuma di un tempo frazionato di infinite riflessioni e scoperte. C’è il giapponese On Kawara che nel Settantacinque comincia a sfornare tavolette nere su cui si limita a dipingere a lettere bianche una data e che poi espone insieme a ritagli di prime pagine di giornali che registrano gli eventi del giorno, sarà pure un fantasma il tempo ma fa notizia. C’è Daniela Comani che nel 1999, quelle date, piccole e grandi che scandiscono il corso del «Secolo breve », le annota una dietro l’altra su una grande tela, reclamandone la paternità o impossessandone come ne fosse testimone o protagonista. «Sono stata io», confessa, descrivendosi sulla plancia del Titanic che affonda, sulle trincee abbandonate di Caporetto, nei nascondigli dei vietcong in guerra. Il tempo come un diario di cifre: per ricordare i suoi viaggi il ceco Roman Opalka ne contava sulla tela i secondi, sequenze di numeri che provvedeva a rendere quasi illeggibili, segni bianchi sbiaditi nel grigio.
E anche il tempo come una miniera di segni. Federico Pietrella, un paesaggista under quaranta che vive in Germania, dipinge scorci di periferie urbane: a distanza sembrano quadri divisionisti tardo Ottocento, poi se ti avvicini ti accorgi che quel panorama di puntini sgranati non è altro che una ragnatela di timbri da ufficio.
Un’ossessione, questa caccia al tempo che ne nasconde spesso, un’altra, quella della morte. Gino De Dominicis ne esorcizza lo spettro con un annuncio funebre, di cui si serve come invito per una sua mostra all’Attico. Doveva essere il suo talismano d’immortalità, pochi anni dopo la grande falce toglierà immaturamente di scena anche lui. Al gran banchetto della vita la morte è l’immancabile convitato di pietra. Ce lo ricorda il duo creativo Bertozzi&Cason, confezionando una torta di compleanno in ceramica, nella quale sguazza un cranio che ne azzanna una fetta. Un’opera datata 2015 ma in controtendenza , perché la società di oggi e l’arte che se ne è fatta schiava voltano le spalle alla morte, la rimuovono come uno scandalo.
Proprio a fine percorso una performance di Chiara Camoni ci getta un amo consolatorio. Antefatto: un tabellone ci spiega la riforma del calendario di papa Gregorio XIII, che in pieno Cinquecento per far quadrare i conti, falsati da troppe approssimazioni, e allineare il calcolo ai solstizi, decise di azzerare dieci giorni, rubandoli a un mese di primavera. Azione: seduta a un tavolino l’autrice è pronta a sottoscrivere e timbrare a richiesta dei visitatori il certificato del dono di uno di quei 10 giorni svaniti nel nulla. Un bel regalo. Ma che farsene di ventiquattr’ore soltanto? Molto meglio reclamare l’infinito. Impadronirsi del tempo come fa in una fascinosa sequenza di foto polaroid Luigi Ghirri, spiando le nuvole e il mutar della luce nel cielo.