A proposito di “Schiava di Picasso”
Dora Maar e il diavolo
Osvaldo Guerrieri ha ricostruito la passione assoluta e violenta tra Pablo Picasso e Dora Maar: un amore fatto di arte, piacere e sottomissione. Fino alla follia
Con quel suo atteggiarsi a primo pittore del mondo, con quella sua risata da cavallo, con quel suo motteggio da torero vanitoso, Pablo Picasso, chiamato anche “il Minotauro”, attirava, con straordinaria facilità, le donne nel suo labirinto. Genio, indubbiamente, ma crudele, e spesso perfido, con le sue amanti. Siamo nel 1936, nella brasserie parigina “Deux Magots”. Picasso si stacca dall’amico e poeta Paul Eluard e osserva incuriosito una bella e malinconica donna. È sola, davanti a un tavolino. Alzando di poco lo sguardo, lei nota l’artista. Poi si sfila i guanti, afferra un coltello e inizia il suo solito giochetto sadico: conficca la lama nei piccoli spazi tra un dito e l’altro. Procede con frenesia. Ossessivamente. Ogni tanto il coltello sfiora un dito, il sangue sgorga, ma lei non smette. Picasso gli è davanti divertito, e le chiede di avere in dono i suoi guanti. Concesso. Poi si presenta, anche se sa che non ce n’è bisogno. Poi l’avance, perentoria e dolce: «Potrà venire in rue de la Boétie quando vorrà e la sua visita mi renderà felice». La donna col naso affilato, i capelli corvini raccolti con cura sopra la nuca, risponde in spagnolo. Il tono è secco: «Mi chiamo Dora Maar: fotografa».
Picasso fa ancora domande e scopre che non è spagnola ma jugoslava e per molti anni ha vissuto in Argentina. Lo sciupafemmine catalano ribadisce l’invito: «Le espero en mi despacho lo màs ante posible, senorita Dora». Da quella sera, Dora Maar – all’anagrafe Henriette Markovic – diventerà un essere sottomesso, umiliato, trattato «come un cane che deve leccare la mano al suo padrone». Anche amata? Senza dubbio: in maniera furiosa, appassionata. Il Minotauro è sapiente nell’arte della seduzione. Lei, per un poco di attenzione amorosa o per alcuni giorni di sfrenata passione sessuale, ingoia gli insulti. A volte ribatte: «Sei un grande artista, ma sei anche una merda». Ma presto si rimangia tutto e si scusa. Pablo la assale con altre lame verbali: «Apprezzo in te la bellezza e l’intelligenza. Mi piace anche scopare con te, ma ho l’impressione che nel sesso metti sempre un pensiero luttuoso». Un percorso, quello di Dora, costellato da brevi e illusorie felicità, ma anche di scudisciate sull’anima.
Una storia dolente che la porterà a rasentare la follia, elegantemente tratteggiata da Osvaldo Guerrieri nel libro, documentatissimo, edito da Neri Pozza (pag. 237, 16,00 euro) e intitolato Schiava di Picasso. Si può dire che Dora le prove di sottomissione le aveva già fatte con l’ultimo suo amante, Georges Bataille, bibliotecario e filosofo e convinto che fosse l’erotismo a muovere il mondo. Si amavano, Dora si illudeva di dondolarsi nella dolcezza, in realtà «i gesti di lui – annota Guerrieri – si facevano così bruschi e duri da diventare tortura». Bataille, mancato seminarista, è uno che prende e basta. E non rinuncerà mai al bordello, che chiama «la mia chiesa». Dora sopportava, a occhi bassi. Anche se odiava quel «lerciume sessuale». Da una poesia di Dora: «… sono caduta in rovina straziandomi d’amore». Dopo troppe obbedienze, la donna dagli occhi profondi e tristissimi riesce ad allontanarsi «seriamente» da un uomo che pur continuava ad amare «pazzamente». «Può andare a farsi fottere, il signor filosofo», si disse un giorno.
Ecco è questo passato di sconfitta che Dora, avvolta in un mantello rosso, si porta sulle spalle fragili quando bussa alla porta dell’atelier di Picasso. Il suo prossimo e definitivo aguzzino. Per capire meglio il loro sempre più intricato rapporto conviene mettere a confronto due frasi tratte dai rispettivi diari. Dora: «Pablo è uno strumento di morte. Non è un uomo, è una malattia, non un amante, ma un padrone». Pablo: «Dora per me è sempre stata una donna che piange, è importante perché le donne sono macchine per soffrire». Dora ha 31 anni, Pablo 52 e ha due figli: Paulo dalla moglie Olga e Maya da Marie-Thérèse. L’artista destinato a imprimere una svolta rivoluzionaria alla pittura desidera che la sua ultima amante (più volte cornificata) appartenga alla sua “famiglia”. Dora si scandalizza, recalcitra, addirittura viene alle mani con Thérèse. Alla fine accetta di sedere alla stessa tavola, perfino di giocare con la piccola Maya. Ormai sa che il suo aut-aut non serve a nulla, né in questa né in altre situazioni. Picasso anticipa il suo non-coraggio: «Ho bisogno di entrambe».
Scoppia la guerra di Spagna. Il pittore teme per l’incolumità di sua madre, che abita a Barcellona. Non ha torto: tutti sanno che la donna è «la madre di un pericoloso comunista». Dinanzi ai massacri compiuti dal generale Franco (migliaia di civili uccisi a tradimento) e dagli aerei italiani e tedeschi, sa che deve reagire. Come? Con un quadro che riassuma l’indignazione del mondo intero. Accetta la proposta dell’ambasciatore spagnolo e tratta sul compenso (pagheranno i sovietici). Nasce così Guernica la tela che descrive l’orrore di una città rasa al suolo. Pablo si isola. A Dora si limita a dire: «Non ti voglio tra i piedi». Prima che la tela sia trasportata all’Esposizione Universale di Parigi, la vedrà l’ambasciatore tedesco, ex insegnante di disegno e ammiratore di Picasso. Osserva a lungo il capolavoro, poi chiede all’artista: «L’ha fatto lei?». E il catalano lo fulmina: «No. L’avete fatto voi». La battuta girerà immediatamente nelle strade di Parigi calpestate dagli stivali nazisti. Se Dora è stata messa inizialmente in disparte, successivamente le viene concesso il privilegio di fotografare il genio al lavoro. Del resto lo ha sempre desiderato.
Lui invece la dipinge nuda, a letto, in una pausa tra i bizzarri rituali mistico-surrealisti, in realtà incontri in campagna dove sperimentare il libertinaggio più assoluto. E Dora china il capo, si adombra, piange, soffre. E si rifiuta di prestarsi a uno dei disinvolti scambi di coppia. La delusione, il disincanto e certi scatti di orgoglio, tutti abortiti, la rendono ombrosa, schiva e, soprattutto, stanca. Siamo dunque alla vigilia della morte di un amore, dopo un’estenuante altalena di sprazzi di cortesia e di fendenti di ironica crudeltà. Picasso a un amico: «Se permetti, desidero presentarti la donna che con la sua bellezza e la sua intelligenza rende sopportabile la mia antipatica vita: Dora Maar ….. la più grande fotografa del secolo, una vera artista». Lo spagnolo gigioneggia e si fa beffe di lei, strumento per dilatare il narcisismo. E quando Dora organizza una propria mostra, Picasso le rovina la festa «entrando con le movenze di tango e facendo volteggiare il cappotto come farebbe un matador con la muleta». Diventa l’attrazione principale. Dora se ne va. La stampa parlerà principalmente di lui. Uno schiaffo enorme.
Ma la donna che amò i suoi carnefici torna ancora una volta da lui, pur avvertendo le scosse telluriche che fanno scricchiolare l’edificio amoroso. «Tu sei il diavolo», gli urla addosso. Lui: «Se io sono il diavolo, tu sei l’angelo uscito dalla brace. Per ciò sei la mia sottomessa». Sulla avvelenante scia dell’illusione Dora accarezza ancora una volta la sua vanità: «Sì, Pablo, hai ragione, sei bello, sei bello!». Un giorno muore la madre di Dora. Lei si dispera. E lui: «Ma cosa credi, di essere l’unica donna che ha perso la madre? È la cosa più naturale del mondo. Vuoi disperarti all’infinito? Mi sembri pazza, Dora». Giorno dopo giorno, il Catalano che gli amici paragonavano a “un leone incanutito” respinge “la femme qui pleure” e fa il “sottaniere” con donne più giovani. Sull’orlo del baratro, Dora si rivolge a Lacan, il quale facilita il suo internamento in una clinica. C’è una piccola ripresa psichica, ma dura poco. Dora si rintana in casa.
Conclude Osvaldo Guerrieri: «Dora aveva sfiorato il suicidio, ma era riuscita a ritrarsene appena in tempo, passando da un dio a un altro Dio e conquistando la pacata serenità che le permise di dire fino all’ultimo dei suoi giorni: “Dopo Picasso soltanto Dio”». Marie-Thérèse invece si impiccò in un garage.