L'elzeviro secco
Bisogna saper perdere
La favola del Leicester (che corona un sogno) vale anche a rovescio: aver familiarità con la sconfitta è quel che ci consente di perfezionare i nostri sogni. Come diceva Proust
Claudio Ranieri meritava di vincere la Premier League e tutto è andato liscio, benché qualcuno si ponga nell’ottica del detrattore o del bastian contrario, affilando la propria voce fuori dal coro con osservazioni del tipo «ma non era Ranieri quello che…». Tutto ha seguito la via tracciata. Ciò che con tanta partecipazione si auspicava accadesse – per rilanciare il calcio e i valori del calcio, quasi fosse un rilanciare la vita stessa e i valori dell’esistenza – si è avverato, una volta e per tutte: il Leicester City è campione. Una squadra destinata a lottare per la salvezza è sul tetto dell’UK.
Il calcio è dunque salvo: agli occhi di un pubblico sbalordito resta lo sport par exellence perché le imprese esistono, talvolta si manifestano e nessuno può obiettare. Se si persevera con tenacia e coraggio nell’affrontare le cose e le vicende, niente è impossibile. Jamie Vardy, da metalmeccanico della periferia di Sheffield, capocannoniere con il Fleetwood Town in Premier Conference, è re d’Inghilterra, vanto della Corona. God save Vardy. Nessuna nube sul sogno. È chiaro, terso, vivido. Il sogno, appunto.
Il problema, se è consentito dirlo, sembra sia un altro. Ora che le Foxes hanno agguantato il contenuto della vittoria, cioè ora che fisicamente, quasi materialmente possono dire di sguazzare nella gioia del sogno, nel sogno diventato gioia, pura, tangibile, da cui si diparte quell’impresa sportiva che rimarrà negli annali e che oggi tanto ci commuove, non accade forse che la gioia e il sogno siano già svaniti per lasciare spazio ad uno sconcertante vuoto di sogno? Non è forse un destino per l’uomo – che sia nello sport o nella vita – non riuscire mai ad agguantare del tutto il contenuto di ciò che desidera, per nascondersi dietro ad un simulacro di esultanza? Anzi, non è forse per l’uomo il contenuto del sogno il sogno stesso, nel momento in cui non è, o meglio nell’intersezione tra il non essere ancora e l’essere già stato, in bilico, sull’orlo, di là di attraversare la riva?
Non è la traversata la grande vittoria e la grande gioia non riconosciuta? Non era “prima” che si gioiva, prima della gioia, nell’attimo di trepidazione quando tutto sembrava possibile e aperto, quando ogni cosa poteva essere ribaltata all’istante? «Stiamo andando verso la vittoria, ma non sappiamo ancora cosa accadrà» era la vittoria: al di là di questo confine, di questo confondimento, la vittoria è una morte, la sconfitta è un’impronta di vita.
Tutto è già finito, l’impresa sportiva è sgusciata dalle mani, come un’anguilla. Ci saranno passerelle, vacue o confortanti, ma la pienezza – la pienezza dei giorni in cui si aspettava, giorni in cui ancora non si verificava l’atteso – si riacquisterà solo attraverso il ricordo di quegli attimi riassaporati per mezzo della memoria poetica. «Era bello quando eravamo…». Tutto è lontano, sfuma, è il giorno dopo. Mentre prima era prima: il sogno. La poesia è il ricordo del sogno o il sogno di un ricordo, il richiamo alla gioia che il sogno attualizzi la sospirata pienezza del reale. Per dirla con Proust, la poesia è una recherche del ricordo verso un tempo ritrovato, cosa che non è umanamente possibile vivere nel concreto, ma che abbisogna di un contraltare negativo: la sconfitta.
La società in cui viviamo, dominata dall’acre valore di vittoria e di sopraffazione, dietro al quale si cela un non ancora rimosso retaggio totalitario, di assoggettamento e realizzazione, dimentica il sogno e soprattutto l’etica della sconfitta ad esso riferito, la possibilità cioè di perdere, di saper perdere e vedere nella perdita un potenziale positivo, volto a riacquistare un contatto umano con le cose che sia più autentico e confidenziale.
Allora era forse il caso di perdere, di inginocchiarsi di fronte al sogno mancato, alla gioia disattesa per sentire una traccia più forte, perché, come afferma il poeta, «non si percepisce mai la vita così forte come nella sua perdita».