Ricordo di un grande interprete
Albertazzi, ciao divo!
Da Amleto a Adriano, Giorgio Albertazzi è stato l'ultimo divo del Novecento. Ma anche un attore intellettuale, dotato di un carisma al tempo stesso divino e maledetto
Chissà quanti, adesso, diranno: «Io lo conoscevo bene». Effettivamente, Giorgio Albertazzi era una presenza familiare a chiunque: uno dei pochissimi divi teatrali del Novecento che siano stati in grado di oltrepassare i confini della scena, benché la sua presenza in televisione e nel cinema sia stata abbastanza limitata e non sempre significativa (se si eccettua, forse, il curiosissimo film scritto da Robbe-Grillet, L’anno scorso a Marienbad). Forse, questo è il primo elogio da fargli, piangendone ora la morte: ha portato il teatro fuori dai propri stretti confini. L’amore tormentato con Anna Proclemer, la rivalità artistica, quasi parossistica, con Vittorio Gassman, gli estetismi quasi da nuovo Vate, le sue magnifiche sciarpe di seta: sono stati tutti elementi che hanno consolidato la popolarità ben oltre i ridotti confini della scena. Questo è stato: un attore pop ante-litteram. Ma del tutto particolare: nulla a che vedere con la deriva dei tanti Timi d’oggi.
Ho lavorato con Albertazzi quasi quindici anni fa per uno spettacolo strano su Giulio Cesare di Shakespeare nel quale lui, da vero e magistrale mattatore d’altri tempi, interpretava molti ruoli: Bruto, Cassio e altri ancora. Toccò a me cucirgli addosso un adattamento in grado di rendere credibile l’azzardo progettato e diretto da Antonio Calenda. Non ero un teatrante alle prime armi: quel che mi colpì era che Albertazzi aveva piena consapevolezza intellettuale del suo ruolo in scena come della poetica e del canone shakespeariano. Non come una normale “bestia da palcoscenico” che abbia accumulato suggestioni critiche grazie alla frequentazione scenica, ma proprio come un uomo che a quel tema (all’interno universo di Shakespeare) aveva dedicato tempo e studi. Passammo ore, per esempio, sulla possibile traduzione di alcune singole parole: ogni volta tirando in ballo l’universo mondo. Era un attore intellettuale, uno dei pochissimi, che io sappia: questo forse è stato il suo pregio e il suo difetto contemporaneamente. Un attore consapevole, che quindi gestiva pienamente il proprio carisma, la propria gigioneria, o anche il proprio (presunto) maledettismo.
Perché, poi, l’altra parola chiave del teatro di Albertazzi è stato “eccesso”. Nella vita come nell’arte: il suo stile era vivere e interpretare i personaggi fino all’estremo. La sua idea di recitazione presupponeva la più totale adesione al personaggio. Albertazzi era Amleto: nel senso che entrava in quella psicologia, in quei tormenti; vi si identificava completamente fino a sovrapporre il personaggio a se stesso (o viceversa, ché nel teatro succede spesso, quando si diventa divi). Lo stesso accadde con Adriano, in occasione di quello che forse è stato il suo più grande successo degli ultimi decenni: Memorie di Adriano in uno spettacolo ispirato al magnifico romanzo della Yourcenar e cucitogli addosso da Maurizio Scaparro. Diceva spesso che gli piaceva essere quel personaggio perché lo conduceva al cuore di una stagione della storia (il secondo secolo dopo Cristo) nel quale l’uomo viveva, quietamente, senza Dio. Il che voleva dire, sotto sotto, che se Adriano era l’unico uomo/dio riconosciuto, anche lui, Albertazzi, poteva assumere questo ruolo. E, in effetti, curava in sé una sorta di divinazione che, nelle sue intenzioni, doveva produrre carisma nel suo modo di stare in scena e emozione assoluta negli spettatori: era come se ipnotizzasse il suo pubblico.
D’altra parte, dallo Shakespeare recitato all’Old Vic alle provocazioni da dramma borghese “violentato” costruite insieme a un’altra grande, Anna Proclemer, Albertazzi ha dato molto, e in modo sostanzioso, al teatro italiano ed europeo. Forse, l’unica dimensione che gli è mancata, malgrado ci si sia provato tante volte, è stata quella del Maestro, ossia del grande artista che forgia i talenti futuri. Ma ciò è dovuto a un’altra sua peculiarità: Giorgio Albertazzi era un uomo solo, intimamente solo perché in condizione, costantemente, di fare i conti con se stesso. Anzi, questa era la sua condanna, quasi la sua maledizione: l’incapacità di fingere con se stesso. Ecco perché stava così a suo agio sulla scena: perché poteva sfuggire da se stesso.