L'elzeviro secco
A passo di Walser
L'indicibile delle donne dalla poesia (di Eugenio Montale) alla prosa (di Robert Walser): ritratto dolente della migliore metà dell'universo
La nostra società diviene, di giorno in giorno, sempre più femminista e aperta alla parola della donna, vantando questo merito con il matriarcato delle investiture e le conseguenti prese di possesso di luoghi politici e non, incarichi istituzionali, incombenze d’ogni genere. Tutto ciò è bello e buono, naturalmente. Ma la modalità in cui avviene, per così dire la risultante geometrica di tale processo, fa sì che si perda il dato culturale forse più importante dell’intero Occidente, che ha una sua radice nell’origine stessa della nostra letteratura: la manifestazione fisica/metafisica dell’essere femminino nella sua essenza, oggi, sempre più dispersa, irriconosciuta, irriconoscibile lungo le vie rigate dall’indifferenza nel confronto con lo stupore o, come lo chiamavano i Greci, con il tauma. La meraviglia. E non perché le donne non debbano pretendere e ottenere uguali diritti, perseverando in tale stato, ma perché in esse vi sono particolari caratteristiche che questa società, a onor del vero incrudelita nel maschilismo più becero, non premia, non mette in luce, frustrandole in un concerto identitario di distruzione e occultamento dell’effettiva icona del femminile. È una forma strumentale d’utilizzo dei diritti, un’oggettivazione più profonda e più spietata, perché si maschera di belle intenzioni.
La donna, essere insigne e venerabile quant’altri mai, ciò che di meglio uscì dalle mani di Dio, il vertice medesimo del creato, vive oggi la terribile contraddizione di omologarsi all’uomo nelle di lui cariche e, soprattutto, nelle di lui miserie. Ciò lede la dignità del gentil sesso molto di più del suo relegamento al rango di padrona dell’esclusiva sfera privata. Talvolta, in solitarie passeggiate all’ora dell’aperitivo, i padiglioni auricolari, già pregiudicati dalla mia demenza spirituale, sanguinano: mi capita di udire donne nell’atto di bestemmiare, in particolare proferendo quelle bestemmie che più offendono il loro stesso pudore. Confesso che faccio fatica anche solo a scrivere questa frase, talmente mi ripugna il pensiero. Vorrei inginocchiarmi e maledire l’epoca in cui sono nato, in cui sofferentemente vivo – e pure vivo –, anzi domandare al cielo perché non abbia solcato di gran carriera il secolo decimo terzo e la corte di qualche munifico signorotto, trovatore fra trovatori, che canta gioiosi e speculativi inni alla propria madamigella, donna me prega, donne che avete intelletto d’amore. Dove stiamo finendo? Che libertà è mai questa? Pochi decenni or sono, Montale scriveva:
Io dico
che immortali invisibili
agli altri e forse inconsci
del loro privilegio,
deità in fustagno e tascapane,
sacerdotesse in gabardine e sandali,
pizie assorte nel fumo di un gran falò di pigne,
numinose fantasime non irreali, tangibili,
toccate mai,
io ne ho vedute più volte
ma era troppo tardi se tentavo
di smascherarle.
Dicono
che gli dei non discendono quaggiù,
che il creatore non cala col paracadute,
che il fondatore non fonda perché nessuno
l’ha mai fondato o fonduto
e noi siamo solo disguidi
del suo nullificante magistero;
Eppure
se una divinità, anche d’infimo grado,
mi ha sfiorato
quel brivido m’ha detto tutto e intanto
l’agnizione mancava e il non essente
essere dileguava.
Non c’è il “brivido” che dice tutto. Non partecipa del reale e non è più suscitata dalla navicella dell’ingegno la capacità di riconoscere “deità in fustagno e tascapane”, perché la corruzione dei costumi rovina la vita nel suo richiamo al potere autocentrato dell’imporsi nel divertimento e nella sfrenatezza sfrontata, nella mollezza etica che vincola ed elide ogni responsabilità. Ma esiste un richiamo più forte. Ed è il richiamo alla purezza. Ce lo ricorda Robert Walser, scrittore svizzero e grande interprete dell’incontro casuale, in Sulle donne, l’ultimo racconto in ordine di tempo tradotto da Adelphi.
«Trascorsi pochi giorni soltanto dacché mi fui insediato, ovvero confortevolmente domiciliato nel nuovo domicilio, misi piede in un caffè concerto, là dove vidi palesarsi con pomposa leggiadria colei delle cui sembianze mi accadde d’invaghirmi con empito che in nessun modo mi sarei atteso in chi, fino a quel momento, si era distinto per aridità, prudenza, eccetera, come il soggetto da me rappresentato. Mi limitai a sussurrare quanto segue: “È questo per me castigo o premio, è arricchimento o miseria delle più nere? Ed è costei, che rimiro con occhi fra i più disutili e indegni, che guardo e contemplo con pupille sgranate, a capofitto nella cecaggine, invero soltanto un’entità umana, o è una dea discesa in volo dagli spazi siderali?” e, mentre così andavo formulando tra me e me codesti o similari mormorii di beatitudine, ebbi la sensazione d’essere spacciato».
La vera essenza della donna risiede nel suo essere indicibile, nel suo presentarsi leggiadro e sfuggente, come impossibile da esprimere se non a mezzo di una divagazione nella regione della scrittura, sulla frontiera stessa della scrittura. La divagazione è, in effetti, l’arte dell’indicibile. E l’intera letteratura occidentale può essere concepita come una divagazione sul tema della donna, che è di per sé indicibile. Ancora Walser: «Io riprendo innanzitutto, con forza e vigore, a passeggiare nel cuore ovvero sancta sanctorum del tempio innalzato alla teoria, per esporre il seguente e senz’altro accettabile pensiero riguardo alle donne in generale: è bello e utile conoscerle, ma è parimenti utile, e se del caso ancor più bello, grazie all’esatta cognizione delle loro peculiarità, soccorrerle e servirle, industriandosi magari, non già a suggerire alle loro anime sensibili quel che esse sono, quanto piuttosto accennando loro ciò che esse medesime, nella tale o talaltra circostanza, sarebbero in grado di divenire».
Ciò che esse sarebbero in grado di divenire. La donna è chiamata, nel tempo presente, non certo a mettersi i calzoni della mascolinità, ma a diventare ciò che in verità è. La donna deve diventare ciò che è, se vuole emanciparsi realmente e non rimanere oggetto e strumento. Se la manifestazione è “siderale”, ci si attende che il divenire della donna sia sine macula. Esso è l’ideale stesso e il motore della poesia come soglia d’incontro del mondo trascendente, – di un mondo reale.
Un mondo più ospitale.