Un maestro (irregolare) da riscoprire
Una vita da critico
Ritratto di Giacomo Debenedetti attraverso le parole della figlia Elisa: «Il suo esercizio della critica consisteva nell’interagire con l’animo dell’autore soprattutto attraverso l’identificazione»
Entro nello studio che era di Giacomo Debenedetti; una piccola camera che affaccia sui tetti della città vecchia. La cupola di una chiesa è vicinissima, pare quasi di toccarla, se allungo il braccio. La figlia Elisa mi accoglie con amicizia. Mi siedo sul divano-letto coperto da un telo giallo, proprio accanto alla finestra, di fronte c’è una libreria zeppa di libri. L’ho conosciuta per caso: una telefonata su un numero di telefono aziendale, aveva bisogno di una consulenza. Venga da me, disse, al citofono c’è scritto Debenedetti, una sola parola Debenedetti…
«In quegli anni era difficile comprendere e accettare fino in fondo l’originalità in ambito critico di mio padre. C’erano delle forme di gelosia molto evidenti. Lei pensi, è stato bocciato ai concorsi a cattedra. Molti professori si mostravano diffidenti, sospettosi… Oggi mi pare invece sia accettato. Devo aggiungere che finché era viva mia madre, era lei che si occupava di tutto, relativamente alle pubblicazioni dei saggi e delle lezioni di Debenedetti; i suoi consiglieri erano Gianfranco Contini e Geno Pampaloni. Si era fatta carico di questi compiti per fargli giustizia, consapevole del suo valore. Lui era un perfezionista, a parer suo gli scritti non erano mai realmente pronti per essere stampati. Se non fosse stato per Renata Orengo (mia madre), i libri editi sarebbero stati molti di meno. Quando è morta, le cose sono cambiate… adesso tutto è affidato al mondo più che a noi».
Sua madre lo amava molto…
Gli è sempre stata accanto. Era molto dotata, laureata con Venturi, diplomata in pianoforte. Ha tradotto diverse cose e scriveva molto bene. Insieme a mio padre e altre persone ha scritto anche un diario sulla guerra, sul periodo delle persecuzioni. C’è una fotografia molto eloquente dei miei genitori, all’inizio delle persecuzioni razziali, pubblicata diversi anni fa su Il caffè illustrato di Pedullà. Era un legame spirituale, culturale.
Giacomo Debenedetti era ebreo e i suoi racconti, ambientati al tempo della Shoah, possono essere considerati documenti storici. Mi riferisco a “16 ottobre 1943” oppure “Otto ebrei”. La prima una narrazione quasi cronachistica, dettagliata della deportazione nei campi di sterminio di più di mille ebrei; l’altra, un’opera di riflessione sui diritti degli individui, al di là dell’etnia, credo religioso o politico. Nella prefazione di Moravia (anche lui ebreo) in “16 ottobre 1943” c’è un coinvolgimento empatico con Suo padre, sul sentirsi appunto diversi, non accettati dalla società. Per esempio racconta della madre che fece le pratiche per cambiare il loro nome ebraico in ariano, adottando quello della nonna materna. Moravia era costretto a usare pseudonimi per poter scrivere, perché con la sua famiglia figurava nelle liste per la deportazione…
A Roma abitavamo in un appartamento all’Aventino, in Via Sant’Anselmo. Poi quando è iniziata la guerra e le persecuzioni, fummo anche noi costretti a scappare. Ci siamo rifugiati in una villa a Cortona, nella Val di Chiana, insieme a una famiglia, i Pavolini. Lui era fascista ma aveva sposato una donna ebrea, Marcella Hanau. Era una copertura reciproca: se fossero venuti i fascisti noi saremmo stati Pavolini, se gli antifascisti, Debenedetti. Vicino alla villa c’erano diversi intellettuali come Pietro Pancrazi, Nino Valeri… il nipote di Diego. Mio padre continuava a scrivere ma senza potersi firmare. Prima di questo periodo aveva collaborato ad alcune sceneggiature per il cinema, con Biancoli e Amidei soprattutto. In un’intervista a Rondi, Amidei racconta il tipo di film realizzati con mio padre durante il fascismo, adoperando appunto il suo nome. Purtroppo non poteva comparire mai! Dopo la guerra faceva anche il giornalista, alle volte sotto pseudonimo, per il giornale L’Epoca di Leonida Rèpaci e per anni ha scritto i commenti della Settimana Incom. Erano tutti lavori che svolgeva per guadagnare e mantenere la famiglia. In seguito non se ne è più occupato preferendo che nulla di postumo venisse alla luce, segnalandoci tuttavia calorosamente il parlato della Settimana Incom.
Corrado Pavolini era il fratello del famoso gerarca, Alessandro, che all’epoca era un noto critico, regista teatrale e televisivo. Tra i diversi lavori, aveva diretto alcuni sceneggiati della Rai negli anni Cinquanta come “La patente” con Mario Scaccia nei panni del giudice istruttore. A proposito di questi grandi personaggi, ho letto un’intervista a suo fratello Antonio in cui s’intuisce una certa nostalgia di un’infanzia trascorsa tra libri e importanti amicizie con intellettuali del tempo…
Quando siamo ritornati a Roma, la casa dove adesso abito ha cominciato a gremirsi di artisti, letterati. Adesso siamo nello studio di mio padre. Dormiva su questo letto dove ora lei è seduta. Ricordo che organizzavano qui anche diversi premi letterari con personaggi come Pietro Paolo Trompeo, Vigolo. Ha mai letto L’amata di Elsa Morante? Nel libro è raccontato tutto, c’è un carteggio tra lei e mia madre. La Morante aveva un solido rapporto di amicizia con i miei genitori, con me e mio fratello. Nel libro Menzogna e sortilegio Elisa sono io… Addirittura dicevano che ci assomigliavamo molto fisicamente. Chi è che lo diceva? Non ricordo… Però lo legga quel libro… glielo consiglio davvero.
E Saba?
Erano molto uniti. Mi viene in mente che una volta lui dedicò ad Antonio una Scorciatoia (Scorciatoie e raccontini, raccolta di narrazioni brevi o brevissime, riflessioni, aforismi. Ed. Mondadori 1946, ndr) e io buttai una lampada contro un muro per gelosia. C’era un rapporto molto forte tra me e mio padre e tra mio fratello e mia madre… forse per questioni caratteriali. Ci assomigliamo molto. Siamo persone non subito comprensibili…
Per quanto riguarda la produzione narrativa, è molto interessante un articolo del critico Giuliano Manacorda che analizza i due racconti più noti di Giacomo, appunto “16 Ottobre 1943” e “Otto ebrei”: “C’è un passo del 16 ottobre 1943 in cui si racconta del gesto di alcuni cittadini romani in aiuto degli ebrei angariati dalla richiesta tedesca di cinquanta chili d’oro; Debenedetti non solo non rifiuta il gesto discreto e pieno di pudore di quegli uomini ma li descrive con grande simpatia e riconoscenza”. In poche parole Manacorda rimprovera Debenedetti di non essere coerente in quanto lui stesso affermava che non bisognava commiserare gli ebrei, né perdersi in pietismi poiché anche quella sarebbe stata una forma di razzismo.
Trovo quest’osservazione fuori luogo, stupida. Esiste una certa differenza tra il fatto che non bisogna essere pietosi verso gli ebrei, e un gruppo di persone che ne aiuta delle altre in una situazione di pericolo. È chiaro che mio padre era riconoscente di questo. Poi era molto sensibile all’amicizia, alla generosità d’animo quando ci si imbatteva… Era affascinato da mondi differenti dal suo, non a caso sposò una cattolica.
Debenedetti è stato tra i primi in Italia a “narrare la critica”. Considerato da alcuni tra i migliori scrittori della sua generazione. I suoi studi si focalizzarono soprattutto sulla figura del personaggio-uomo nella letteratura del Novecento. In antitesi al naturalismo ottocentesco, nel nuovo secolo ci si trovava di fronte a una vera e propria rivoluzione dei personaggi che si ritrovano smarriti, inetti, incerti nella sfera psicologica e sociale; una patria da raggiungere (illusoriamente?) attraverso le buie vie dell’inconscio. L’analisi del personaggio riguardò non solo la forma-romanzo ma anche la poesia, la lirica… Da un critico ci si aspetterebbe un approccio alla scrittura limitatamente all’analisi e al giudizio finale. Ma per Giacomo Debenedetti forse è riduttivo…
Il suo esercizio della critica consisteva nell’interagire con l’animo dell’autore soprattutto attraverso l’identificazione. Il personaggio-uomo è un’invenzione che riguarda invece le figure che si muovono all’interno dei romanzi.
Vede nella critica di oggi qualche possibile erede?
L’unico forse è Mario Lavagetto… vive a Parma. Una sua allieva, Vanessa Pietrantonio, ha scritto un libro su Proust e sembra una ragazza interessata a questo tipo di ricerca critica. Certo però non posso dire se mio padre fosse stato solo un caso isolato… Lo stesso fatto di calarsi nella psiche dell’autore per descriverlo fa sì che tutti i suoi saggi siano completamente diversi fra loro. Qualcuno tra i critici accademici lo scimmiotta… ma preferisco non fare nomi.
Debenedetti può essere considerato un eclettico. Spaziava dalla scienza alla musica, alla filosofia… Alfonso Berardinelli, nella prefazione al suo Meridiano, lo definisce un dandy, un rabbi e uno scienziato…
Mio padre era soprattutto un uomo curioso. Questa qualità lo portava in modo naturale, senza volontarismi, a interessarsi di diversi linguaggi come il teatro, il cinema, l’architettura, la pittura. Aveva una particolare vocazione all’interdisciplinarietà. Forse tra le arti figurative principali avrebbe preferito la pittura… Ma nell’ebraismo è vietato raffigurare l’uomo e perciò aveva uno strano rapporto con quest’ultima. Mi aiutò per la tesi su Chagall, e mia madre per quella su Carpaccio. Mi consigliava però di dedicarmi a qualcosa di più plastico, come la scultura e l’architettura. E aveva ragione… Era molto medianico. Aveva uno sguardo ipnotico, non mi sgridava mai, ma bastava che mi guardasse per comunicarmi che qualcosa non andava.
Mi racconti come riusciva a conciliare lavoro e vita privata…
Era un ottimo padre. Si è sempre preoccupato della sua famiglia. Il suo lavoro lo portava a restare spesso alzato tutta la notte e al mattino si svegliava tardissimo. Era raro vederlo a cena e di giorno pranzava intorno alle due, quando noi avevamo in pratica già finito. La domenica spesso ci portava fuori a fare delle gite. Ricordo che una volta parlando con lui, dissi che mi piaceva molto Montaigne. Lui si voltò verso mia madre e la guardò come per dire: Però! Si vede che è mia figlia… Qualche tempo dopo, caso vuole che abbia fatto proprio un corso su Montaigne al quale è seguito un suo libro sull’argomento.
Un appassionato di Proust, Montaigne, Svevo, Pirandello, Saba…
Non solo. Lo interessavano i piccoli scrittori, quelli ancora sconosciuti. Per esempio Elsa Morante nella quale credeva molto e che aiutò a emergere. Basterebbero le parole di una lettera che le indirizzò nell’agosto del 1948: Sono contento che la mia giovane vecchia amica abbia afferrato con mano così ferma, autorevole e gentile la figura del proprio destino: che questa figura corrisponda a quella da Lei sognata. Scoprì anche Giuseppe Berto con Il cielo è rosso, un libro bellissimo della mia infanzia.
Sì, ma non tutti gli scrittori gli piacevano…
Aveva uno strano rapporto con Moravia, forse essendo un grandissimo scrittore lo apprezzò solo in parte. È strano perché a quell’epoca c’era una grande vicinanza intellettuale tra ebrei. Stimava molto Domenico Rea, Maria Bellonci, Sibilla Aleramo, Laudomia Bonanni.
Molte scrittrici!
Non aveva pregiudizi maschilisti. Anche in questo dimostrava la sua mentalità liberale e moderna.
Giacomo Debenedetti diceva che “la vera arte è antisociale” perché scomoda. Lei è d’accordo con questa affermazione? Possono coincidere qualità e successo di pubblico?
Se egli non è stato accettato, è perché la società non l’ha fatto. Ha vissuto una vita terribile da questo punto di vista. Prima non si poteva esprimere perché ebreo poi lo bocciano ai concorsi… è atroce, ha sofferto molto. Non si sentiva amato… e poi era molto pessimista e forse vedeva più nero di quanto in realtà non fosse. Ma poi cosa vuol dire antisociale? Penso che le cose più belle siano quelle che spaziano dalla filosofia alla spiritualità, alla magia. Forse in questo senso sono antisociali perché non comprensibili a tutti. In questo periodo sto preparando un libro su un architetto del ‘700, Marchionni. La sua opera principale è Villa Albani, che è stata capita più tardi rispetto alla vanvitelliana Reggia di Caserta, e che lo rende l’architetto principe del secolo; ma questo giudizio ha stentato a farsi largo.
Suo padre parlando dell’ amico Saba gli riconosceva quella “melanconia ebraica” che lui stesso sentiva…
Quando stavo scrivendo la tesi su Chagall, mio padre mi fece vedere un suo quadro, La sposa, e mi disse: Vedi la malinconia ebraica del matrimonio? Sono cattolica, vado spesso in chiesa. Sento i preti che fanno prediche buffe. Parlano tantissimo dell’ebraismo, si mostrano interessati ma senza conoscerne nulla. Il cristianesimo dà delle certezze… ma nell’ebraismo non ce ne sono. Ogni uomo è responsabile della propria vita… nel matrimonio cattolico ci si affida a Dio, in quello ebraico alla forza di volontà. È una malinconia continua… la sento anch’io. Congiungersi veramente col proprio destino non è facile. Il destino è forse la poesia della propria vita.