Al padiglione 3 di Fieramilanocity
Rinascimento milanese
Grande successo per "Miart", la Fiera d'arte contemporanea che Vincenzo De Bellis ha letteralmente rianimato mescolando sperimentazioni e suggestioni. E rilanciando il mercato
Una sorpresa. Una piacevole sorpresa la ventunesima edizione di Miart che ha occupato con i suoi stand alveari – logo l’apicoltura ad indicare la laboriosità di artisti e galleristi – il padiglione 3 di Fieramilanocity. Risultato? Un miele di qualità, complice la sapiente miscela dei bouquet di questo felice giardino dell’arte fiorito all’ombra della Madonnina. Una sinfonia ben orchestrata, tra moderno e contemporaneo, dalla bacchetta di Vincenzo De Bellis, trentottenne, barese, prossimo curatore del mitico Walker Art Center di Minneapolis. Ha riportato in vita, nei suoi quattro anni di regia, una manifestazione in agonia e oggi la saluta (gli succederà il vice Alessandro Rabottini?) con un bilancio più che positivo. La fiera è tornata tra quelle che contano, lo hanno percepito i galleristi italiani e stranieri, quelli eccellenti, quelli che sono il motore dei centri vitali del contemporaneo, Londra, New York, Parigi, Berlino e Madrid, mentre gli emergenti ne hanno annusato le potenzialità.
La conferma è arrivata da subito con le prime vendite già la sera dell’inaugurazione, l’ottimismo che si è respirato nei quattro giorni si è concretizzato in numeri strepitosi: quarantacinquemila visitatori, superando il record di Bologna, una crescita significativa dei collezionisti e degli osservatori, una folla internazionale con presenze anche dal Giappone, Dubai e Hong Kong, opere acquistate persino a cifre sbalorditive di cinque, sei zero con uno sguardo finalmente rivolto non solo alle firme storiche ma anche ad autori “medium career”, in questi ultimi anni fin troppo penalizzati dalla crisi. Valore aggiunto un’atmosfera frizzante e un parterre autorevole tra cui Gabriella Belli, direttrice dei Musei civici di Venezia, Giovanna Melandri, presidente del Maxxi di Roma, Christine Macel che curerà la Biennale dell’Arte di Venezia 2017 e Andrea Viliani, direttore del Madre di Napoli.
Per una che se ne intende come Lucia Spadano – un’avventura lunga quarant’anni nel cuore dell’arte contemporanea da fondatrice e direttrice della rivista Segno – i meriti vanno tutti a De Bellis che, con lucidità e freddezza, ha selezionato le gallerie e aperto le frontiere – 154 su 360 richieste, provenienti da sedici Paesi – ha gestito gli spazi con allestimenti curati, ha imposto un copione rigido sulle proposte in giusto equilibrio tra storicità e ricerca, coraggio e coerenza, mettendo al bando tutta la paccottiglia che ha invaso, in tempi moderni, il mercato. Ne avevamo fin sopra i capelli di opere post pop art, del kitsch di bric-à-brac riciclati, di lavori urlati e falsamente provocatori, di pezzi outlet visti e rivisti; la qualità si è elevata e la vetrina meneghina dà indicazioni chiare alla strada che dovranno seguire le altre manifestazioni fieristiche del Belpaese un po’ in affanno.
Altra scelta dettata dalla mente e dimostratasi vincente è stata quella di inserire la data di Miart a cavallo tra la Triennale e il Salone del Mobile, acciuffando pubblici diversi che comunque si muovono nell’ambito della creatività. Il tutto condito dal fermento che si respira nella Milano post Expo, che aspira al ruolo di capitale europea dell’arte e che sta giocando le sue carte in una sinergia pubblico-privata che alle grandi mostre di Palazzo Reale cala sul tavolo gli assi dei dinamici progetti espositivi in ex fabbriche riconvertite alla cultura di Pirelli Hangar Bicocca, Fondazione Prada e neonati Frigoriferi, di istituzioni no profit come la Fondazione Nicola Trussardi che, con il suo direttore artistico, Massimiliano Gioni, porta l’arte contemporanea direttamente nei territori inesplorati della città, di gallerie cult come la Massimo De Carlo che pilota il sistema dell’arte in un cortocircuito tra periferia e centro, navigando tra le due sedi cittadine del capannone di via Ventura e del salotto neoclassico di palazzo Belgioioso, a pochi metri dalla Scala. Anche la controcultura si innesta in questo processo rivolto al futuro con le incursioni di Macao, il collettivo che nel 2012 aveva occupato la Torre Galfa e che ha trovato casa, con tanto di autorizzazione, nell’ex Macello di viale Molise, il grande salone liberty balconato e il cortile alberato dove si ascolta musica sperimentale e dove arriva la migliore arte di ricerca in circolazione.
Rinascimento milanese. Miart se n’è giovata e, nello stesso tempo ha fatto da organo di trasmissione e da amplificatore, con un rimbalzo dall’interno al fuorisalone e viceversa: un esempio è la scultura installazione della polacca Goshka Macuga in contemporanea alla Fondazione Prada che ospita, nell’edificio disegnato da Rem Koolhaas, la sua prima personale in Italia: “To the Son of Man Who Ate the Scroll”, nell’astronave trasparente del Podium, diventa, attraverso il flusso di coscienza di un androide post umano, un universo proiettato in un futuro primordiale. Il colpo d’occhio è quello di un panorama artistico a 360° con una studiata promiscuità, in ampi e ordinati spazi, tra linguaggi ed esperienze, tra maestri e giovani che si stanno facendo le ossa, con una folta rappresentanza di artisti, classe 1980. E, se non ci sono novità che fanno gridare al miracolo di un’arte che ha trovato finalmente senso e direzione, l’effetto generale è accattivante ed elegante. Intriga anche i non addetti ai lavori e sprona i collezionisti, soprattutto quelli che si affacciano per la prima volta alla finestra della contemporaneità, ad investire: in fondo ci sono lavori interessanti da portarsi via con tremila-settemila euro.
L’invenzione vincente è quella dell’attraversamento di discipline ed epoche diverse con continui rimandi ed echi più o meno espliciti. “Un allargare le prospettive e un’occasione – dice De Bellis – per riflettere sulla continuità tra passato e presente”. E, per questo motivo, ha aggiunto alle quattro sezioni coniate nel 2013 – Established, suddivisa in Master e Contemporary; Emergent fondata sulla ricerca delle giovani generazioni; THENnow, otto coppie di gallerie nelle quali sono messe in dialogo un artista storico e uno appartenente alla generazione più recente; Object dedicata alla promozione di oggetti di design contemporaneo concepiti in edizione limitata e fruiti come opere d’arte – l’attrazione Decades, affidata alla curatela di Alberto Salvadori, che, con le sue nove gallerie, invita a un viaggio nel Ventesimo secolo, secondo una scansione per decenni. Può capitare, così, di ammirare un mobile di Calder impaginato nell’immacolato universo di Sol Lewitt, l’intera serie di “One Trough Zero”, i dieci coloratissimi numeri ideati da Robert Indiana, la serie di dipinti di Emilio Vedova, “De America” (1976-77) esposti dalla Galleria dello Scudo di Verona a confronto con la mini personale di Gastone Novelli, l’omaggio ad Aldo Mondino della Christian Stein di Milano che ha riallestito la prima mostra di mezzo secolo fa, il fascino della trasgressione delle “cattive ragazze” che, negli anni Settanta, eleggevano il corpo ad opera d’arte e che la Blain Southern di Londra ci restituisce intatto.
Infine, il museo di capolavori offerti da Sperone, una piccola, gustosa antologia da Sironi a Soffici, da De Pisis a Prampolini e Soldati, passando dall’anarchico Viani. E’ un giro sulla giostra, voliamo dalle frasi mai banali dei feltri di Agnetti ai tagli di Fontana; da stand interi dedicati a Melotti e Spalletti al mega ritratto silhouette di ragazza di William Kentridge, che Lia Rumma usa come richiamo strizzando l’occhio al taglio del nastro, il 21 aprile, del fregio “Triumphs and Lament”, la street art che invade i muraglioni del Tevere; dal poetico “Volo di Farfalla” all’interno di una campana di vetro scurita col nerofumo di Paolo Icaro, all’ironica Scacchiera in ceramica dell’americano Darren Barren con le scarpe usate al posto delle pedine, le puoi comprare, senza la base, al “modico” prezzo di 27mila euro.
Ed eccoci approdare alla genialata del “faccia a faccia” con accostamenti piacevoli ed altri arditi. La fisicizzazione della forza di Giovanni Anselmo, tra i principali esponenti dell’Arte Povera, si confronta con le installazioni eteree e minimali dello spagnolo Daniel Steegmann “migrato” in Brasile. Artefici la Vistamare di Pescara e l’Esther Shipper di Berlino. Mentre la P420 di Bologna, l’Armanda Gori di Prato e la Laveronica di Modica contrappuntano il loro spazio – sicuramente il più emozionante – con la partitura delle operazioni concettuali sulla musica e il pentagramma di Giuseppe Chiari, pioniere e compositore del gruppo Fluxus, e il sorprendente intervento del libanese Lawrence Abu Hadman, che, ingrandendo e fotografando i materiali al microscopio, trasforma la trama musicale incisa su un vecchio nastro in un tappeto; note dell’anima in cerca di parole che si offrono alla scrittura asemantica della tedesca, adottiva italiana, Irma Blank. Da entrarci dentro invece, la muta, ambigua conversazione tra la fotografa legata al Surrealismo Florence Henri (Martini & Ronchetti, Genova) e l’ormai berlinese Haris Epaminonda, archeologa dell’immagine, con i frame del suo film amarcord “Chapters” sulla perduta patria Cipro (Massimo Minimi, Brescia). Suggestiva, poi, la sottile trama che lega le inconfondibili sculture a ragnatela di Pietro Consagra proposte dalla Tega di Milano alle invenzioni asciutte, ma non da meno fantasiose, di Luca Monterastelli della scuderia Lia Rumma. Direttamente dalla scorsa Biennale dove ha vestito l’Arsenale di sacchi di juta occupa un posto di spicco il ghanese Ibrahim Mahama (Apalazzogallery, Brescia) che duetta con le trame decostruite del ceco Jiri Kolar, padre dei collage poetanti (Lelong, Parigi).
Meno video, poca fotografia, al Miart c’è un ritorno alla pittura: “un interrogtivo costante, il mistero senza fine dell’arte”, teorizza l’artista, poeta e musicista tedesco Markus Lupertz, settantantenne curioso ed eclettico, innamorato della grecità, i cui dipinti neo espressionisti sono il punto di forza della postazione della napoletana Lia Rumma. Dal Vesuvio arriva anche Artiaco che ci regala l’esplosione affabulante di linee e colori dell’affiatata coppia, lei serba, lui francese, Ida Tursic & Wilfried Millie. Delicato ed introspettivo il bestiario mitologico del marchigiano Fabrizio Cotognini, da poco over trenta, con i suoi Tarocchi che denunciano l’orrore delle guerre religiose attraverso un ripiegamento sulle risorse della memoria. A questa giovane promessa Exibart ha dedicato il numero 93 del 2016. Tra gli emergenti spiccano anche lo scultore Tony Fiorentino col progetto a più mani per la Doppelganger di Bari, “Dominium Melancholia”, un paesaggio in mutamento ispirato alla celebre Melancolia I di Durer, e le manipolazioni su fenomeni naturali del catanese residente a Londra Salvatore Arancio in forza alla Federico Schiavo Gallery di Roma. Il premio Rotary Club Milano Brera è stato, però, attribuito ad un altro atlante geopolitico, il dittico “Wath We Want, Tulub Pueblo, Mosab” del napoletano Francesco Jodice. L’Hermo per il miglior allestimento è andato meritevolmente alla galleria Wilkinson di Londra per il progetto legato a ZG Magazine, la prima rivista d’arte ibrida il cui numero 84 ha affrontato un tema difficile come quello dell’identità sessuale, sociale e gender.
Scarpe comode inizia il tour tra gli eventi collaterali del Miart, a partire dall’Albergo Diurno di piazza Oberdan, un gioiellino dei primi del Novecento, un piccolo mondo sotterraneo di bagni pubblici, barbiere, parrucchiere, manicure, ma anche casellario postale, deposito bagagli e servizi di dattilografia. Qui, fino al 10 marzo, è andata in scena, sotto l’egida Fai-Fondazione Trussardi, il teatrino irriverente dell’ex enfant terrible dei Young British Artists, Sarah Lucas, reduce dal successo della Biennale. Col suo “Immemorabiliamumbum”, sberleffa i tabù, i miti e gli stereotipi maschili e femminili riducendoli a feticci grotteschi. Sano erotismo e affettuosa canzonatura. Tante cose da vedere in una città che non dorme mai. Di corsa ad ammirare, tra metro e circolari, la “Casa dei collezionisti”, ovvero il Centre for Contemporary Art (FMCCA) nato negli spazi dell’ex fabbrica del ghiaccio di via Piranesi per iniziativa di Elisabetta Galasso, amministratore delegato di Open Care, con la direzione artistica di Marco Scotini. Il polo comprende un’area espositiva dedicata a mostre di collezioni private italiane e internazionali, una serie di archivi d’artista (Dadamaino, Gianni Colombo e Ugo Mulas), un programma di residenze artistiche, un deposito visitabile e laboratori di restauro . Il debutto, applaudito da pubblico e critica, c’è stato con “L’Inarchiviabile”. Italia anni ’70”, un decennio di grande produttività (un siparietto lo abbiamo visto anche al Miart) in cui la cultura eccede al di fuori del campo dell’estetica, sconfinando in linguaggi che resistono alla catalogazione, in pratiche effimere e in azioni legate alla performità sociale e basate sulla temporalità. Il percorso abbraccia le classificazioni di Alighiero Boetti, le sequenze di numeri di Fibonacci di Mario Mertz, le collezioni di Giulio Paolini e le raccolte di fototessere di Franco Vaccari, l’Atlante geografico di Luigi Ghirri, le sequenze fotografiche di Michele Zaza o di Aldo Tagliaferro, i cataloghi filmici e profumati di Yervant Gianikian & Angela Ricci Lucchi, i Leftover collezionati da Gianfranco Baruchello, gli inventari gestuali di Ketty La Rocca, gli assemblaggi testuali di Nanni Balestrini. L’aspirazione al “Tutto” come intitola la famosa opera di Giovanni Anselmo. Nella sala dedicata alle gallerie che fanno ricerca ha aperto, c’è “Corale” che vede insieme, superando rivalità di mercato, Monitor, P420 e Spazio A con la sequenza di artisti di generazioni diverse del rango di Bainbridge, Guerzoni, Hipp, Samorì, Verna, Bertolo, Klas, Camoni, Lakomy, Cenci, Appel, Baruzzi, Hernandez, Icaro e Spranzi.
All’altro capo della metropoli dell’arte, in Largo Isarco, ci aspettano le suggestioni della Fondazione Prada, che, nel 1993 ha aperto questo spazio dell’utopia in una vecchia distilleria. Qui convivono passato, presente e futuro in una pluralità di ambienti integrati da nuove architetture in continua evoluzione. Da non perdere (fino all’8 settembre) la curiosa mostra “L’Image Volée”, mutuata dalla frase attribuita a Picasso “Il mediocre copia, il genio ruba”. Insomma, nulla si distrugge, tutto si trasforma sembrano dirci le novanta opere di sessanta autori. Peccato che gran parte dei ragazzi, i creativi di questo nostro tempo vuoto di idee, si comportino da dj dell’arte mixando opere altrui e dando vita a cover orecchiabili ma non certo originali.