Fa male lo sport
Ranieri’s sausages
Un grande "aggiustatore”, tutto salvezze e promozioni; nessuna grande impresa ma alla fine si pentivano di averlo mandato via. Questo era Claudio Ranieri, prima che inventasse il miracolo Leicester
C’è stato pure l’happy end. Il Leicester di Claudio Ranieri ha sofferto fino alla fine per vincere la Premier League e scrivere la pagina conclusiva della sua fiaba di Cenerentola. Lui, Ranieri, è sempre rimasto lì a bordo campo, nel suo completo blu e cravatta regimental, ad aspettare e a ripassare la sua storia. Dalle tante panchine della sua vita ha visto passare tanti treni e li ha persi. Arrivò a Napoli che Maradona se ne era andato da poco, alla Juve riemersa dalla B della punizione, all’Inter dopo i successi irripetibili di Mourinho. Adesso, invece, tutti parlano del club inglese e del suo manager italiano. Non del Manchester, non del Chelsea, non del Liverpool, non dell’Arsenal: belli, ricchi e famosi.
Il Leicester è un club piccino, una specie di Chievo o Sassuolo britannico. Capita che il piccolo faccia fuori il grande. Davide con la testa di Golia. Gli ultimi che saranno primi. Il Cagliari di Gigi Riva, il Verona di Bagnoli, la Samp di Boskov sono stati i nostri Davide. In Inghilterra si narrano ancora le prodezze del Nottingham Forest di Brian Clough.
Il Leicester ha un monte ingaggi che è tra i più bassi della serie A inglese: 70 milioni di euro. La scorsa estate ha speso soltanto 50 milioni per gli acquisti, molto meno di qualche big italiana. Okazaki, il giapponese che non si ferma mai, è costato 11 milioni di euro. Mahrez, il grande talento franco-algerino, fu preso per solo un milione di euro un paio di stagioni fa. Venne pagato poco più il fenomeno Vardy, l’ex operaio che giocava in ottava serie e sul quale faranno un film. Piccole cifre nel campionato più ricco del mondo. All’inizio della stagione il Chelsea di Mourinho era il più quotato per la vittoria finale; i sondaggi dicevano che le Foxes, le Volpi che fanno capolino nello stemma del Leicester, sarebbero retrocesse. E che Ranieri sarebbe stato il primo manager a saltare.
È rimasto invece, il tecnico romano, e non vuole più andarsene: «Resterei qui per altri otto anni». Negli stadi cantano Volare, gli offrono salsicce, le Ranieri sausages, durante le conferenze stampa sempre più affollate di cronisti che arrivano da tutto il mondo. L’italiano con i capelli ormai bianchi ci scherza su e invita a dare le salsicce agli «squali», cioè ai giornalisti; lui non ne mangia, troppo aglio. Ed è sempre lui che raduna la squadra e la porta a mangiare la pizza: «Sono come figli, per me». Nel frattempo il Leicester è diventato un caso, al punto di finire sulla prima pagina del Wall Street Journal.
Quando Ranieri arrivò a Leicester, l’accoglienza non fu delle migliori. Ai tempi del Chelsea, i tabloid inglesi gli avevano rifilato il soprannome di tinkerer, l’indeciso: aveva troppi dubbi nel fare la formazione. Gary Lineker, l’ex attaccante della nazionale che è nato proprio lì e che lavorava in un banco al mercato, tifosissimo delle Foxes, esclamò: «Claudio Ranieri? Dite sul serio?». No, non era entusiasta. Ha promesso, per riparare, di raccontare in mutande alla Bbc l’ultima gara del campionato.
Prima della nuova avventura inglese, di Ranieri non si avevano più notizie. O quasi. Le ultime erano pessime. Poche partite alla guida della nazionale greca, un disastro; perse anche con le Isole Far Oer. Sembrava bollito, finito: «È stato un errore». Perché Claudio Ranieri, nato a Roma in via della Piramide Cestia tra San Saba e Testaccio, il popolare quartiere dove il padre teneva una macelleria e lui un po’ faceva il garzone, un po’ dava quattro calci a un pallone, si è trascinato dietro una fama spiacevole: ottimo tecnico ma senza il guizzo vincente. Per molti era uno splendido perdente. Giravano su di lui battute di questo genere: «Date una squadra da quinto posto a Ranieri e ve la porterà al secondo, dategliene una da primo posto e ve la porterà al secondo».
Persona perbene, educato, elegante, un piccolo lord. Senza medaglie sul petto, però. Glielo disse alla sua maniera Josè Mourinho: «Ha quasi settant’anni, ha vinto una Supercoppa, una piccola cosa, le grandi cose non le ha mai vinte, deve cambiare mentalità ma forse è troppo vecchio…». Erano i tempi dell’Inter del triplete. Una stilettata ad ogni occasione. Un’altra volta lo derise: «È stato tanti anni in Inghilterra e sa soltanto dire good, afternoon, e good morning…». Attualmente, battuto da Ranieri e cacciato da Abramovich, l’oramai Normal One portoghese, si è ricreduto: «Tifo per Claudio, lo apprezzo molto e merita di vincere». Il calcio ama qualche volta la nemesi storica, cioè la vendetta.
Ranieri, che a ottobre compirà 65 anni, disse una volta al Corriere della Sera: «Sono riuscito spesso a raddrizzare certe situazioni disperate. Cominciò con il Cagliari nell’88 quando sembrava che la squadra non si sarebbe neppure iscritta al campionato di C1. Mi avevano chiesto la B in tre anni e invece in due siamo andati in A e al terzo ci siamo salvati. Poi è nata la storia che non sono un vincente. Forse perché arrivo sempre un attimo prima o un attimo dopo. Quando sono andato a Valencia, nessuno sapeva esattamente dov’era e dopo di me, senza prendere giocatori, ha giocato due finali di Champions League. Nel Chelsea sono arrivato quando i soldi erano finiti, ma eravamo riusciti a centrare la Champions e questo aveva convinto Abramovich ad acquistare il club…».
Oggi può togliersi qualche soddisfazione e, intervistato da Andrea Sorrentino su Repubblica, ha raccontato con rabbia: «In Italia non mi ha regalato niente nessuno. Alla Juve mi hanno mandato via quando ero terzo e quasi secondo, ma c’erano incomprensioni varie. Invece all’Inter sono stato l’unico allenatore nella storia nerazzurra a cui hanno solo venduto giocatori e non hanno comprato nessuno».
Però con la Roma, andò vicinissimo allo scudetto. Successe sei anni fa. Era il campionato 2009-10. Dopo appena due giornate, Spalletti, sì proprio lui, abbandonò la truppa. Sembra che i fuochi d’artificio con Totti si siano accesi a quei tempi. Rosella Sensi, impensierita dalle casse vuote e dagli avvoltoi che volteggiavano attorno alla società, chiamò Ranieri, il testaccino, er pecione, un tifoso romanista a cui affidare la squadra in difficoltà.
In quel campionato – 2009-10 – successero tante cose e bruciarono molte panchine: Donadoni diresse poche partite a Napoli, al suo posto arrivò Mazzarri; Ciro Ferrara ebbe in mano la Juve di Cobolli Gigli e di Blanc. Il napoletano era subentrato proprio a Ranieri quasi al termine della stagione precedente. Anche Ciro finì male, cacciato a furor di piazza dopo che si era aperta una voragine con l’Inter. Ai bianconeri andò anche peggio con Zaccheroni. Nemmeno per Conte il matrimonio con l’Atalanta fu felice.
Ranieri no. Ranieri annullò il gap con l’Inter di Mourinho, rosicchiò punti su punti come un topino dentro una forma di parmigiano fino a passare in tromba i milanesi a metà aprile nel modo più inebriante per chi tiene ai colori giallo e rossi: battendo cioè nel derby la Lazio, 2-1 (in realtà il sorpasso era già avvenuto una settimana prima ma poi anticipi e posticipi avevano messo davanti ancora Milito e Cambiasso). In quel derby la Lazio era avanti di un gol (Rocchi), la Roma giocava male. All’inizio del secondo tempo, i biancoazzurri avevano anche un bel match point in mano: un calcio di rigore a favore. Ma che combina Floccari? Calcia male e Julio Sergio respinge il tiro. «La mano di Dio è scesa a levare il pallone dalla porta, il pallone dell’infedele… questa non è una partita, è una crociata…» urlerà in diretta Carlo Zampa, la colonna sonora giallorossa. Vucinic invece il suo rigore lo mise a segno, senza pietà e più tardi fece il bis su calcio di punizione. Il pallone è fatto di queste «botte di culo», come ebbe a dire un giornalista romano tra i più noti per sintetizzare, disprezzando il lavoro del tecnico, quell’annata della Roma. Tuttavia, Ranieri in quella partita fece qualcosa di più, sfidando la piazza e il destino: dopo il primo tempo, lasciò negli spogliatoi Totti e De Rossi, i totem, gli intoccabili. Il massimo della trasgressività, nessuno aveva osato mai fare una cosa del genere. In un derby, poi. «Chissà che cosa mi sarebbe successo, se non avessi vinto…» commentò in seguito. Perché il calcio di Ranieri è fatto di un gioco semplice e senza primedonne. Difesa e contropiede, alla vecchia maniera italiana, ma riveduto e corretto secondo il gioco moderno basato sulla velocità e il sacrificio di tutti. Come il Leicester che gioca in verticale senza tocchi e tocchetti. Quella Roma non aveva fuoriclasse, a parte Totti; era una squadra molto meno forte dell’Inter: in attacco Vucinic, Toni e Totti, dietro gente come Cassetti, Burdisso, Julio Sergio, Juan, in mezzo Pizarro, Riise, Perrotta, De Rossi, Taddei.
L’ubriacatura durò sette giorni. Perché poi successe come con il Lecce tanti anni prima. La ruota della fortuna girò, la Samp di Delneri andò a vincere all’Olimpico, due gol di Pazzini, gli assist di Cassano, il gelo, le lacrime di Mexes. E dopo, la Lazio che si lasciò battere docilmente dall’Inter che si prese così il quinto scudetto consecutivo. «Scansamose…» fu lo slogan laziale pur di non favorire gli odiati “nemici” giallorossi (ma De Rossi e Totti commentarono così: «Noi avremmo fatto lo stesso»). Insomma un bel “biscotto” che scandalizzò pochi.
L’allenatore e la Roma non si ripeterono l’anno dopo. Avvio disastroso, anche un 5-1 a Cagliari alla seconda giornata, sconfitta 2-0 in Champions con il Bayern Monaco. Tifosi, radio e stampa contro, caos societario, fantasmi di altri allenatori attorno alla panchina. Ranieri perse le staffe e un giorno non fece più parlare i giornalisti, parlò solo lui. Urlò, tradendo il suo stile signorile: «Questa squadra ha le palle… Facile parlare dopo… Pensate che mi sto a fumare il sigaro in panchina?… Noi ci ricorderemo di voi…». Fino a quel Genoa-Roma del febbraio 2011. La Roma avanti 3-0, rimontata e battuta 4-3 con gol a grappoli, difensori belle statuine e distratti al punto da attirare i sospetti di qualche magistrato. Ranieri gettò la spugna.
A veder bene, da allenatore ha dato il meglio fuori dal Sacro GRA. Lui, global quando non si usava troppo. A Valencia (vinse una Coppa del Re e si qualificò per la Champions al primo ciclo, una Supercoppa Europea al secondo), a Londra, a Firenze, a Monaco. Un grande aggiustatore, salvezze e promozioni. Nessuna impresa ma alla fine si pentivano di averlo mandato via. Avvenne a Pozzuoli, faceva il coach da poco, dove i giocatori lo rivollero in rivolta contro la società, il Campania Puteolana, che lo aveva allontanato. A Londra, il Chelsea, dopo averlo licenziato, “invitò” i giornalisti a non usare troppo spesso il suo nome perché i tifosi gli si erano affezionati dopo i quattro anni passati insieme. Per non dire di Catanzaro. Ma qui portava ancora i calzoncini corti e spazzava le aree da terzino. Ci ha giocato dal 1976 all’82. E quel gruppo gli è rimasto dentro. Persino oggi di fronte alla galoppata delle Foxes di Leicester, lui non fa paragoni pomposi. Non parla del Barcellona e del Bayern. Cita quel Catanzaro. Lo sottolineava Antonio Barillà qualche giorno fa sul Corriere dello Sport. «Il mio Leicester ricorda il Catanzaro di Di Marzio, quello di Palanca, Silipo e gli altri. Capisco non sia un grande esempio, meglio Guardiola. Ma quella era una squadra come questa, un gruppo di amici che viveva insieme». Infatti ogni anno, finito il lavoro, Ranieri raduna gli amici di allora: una volta sul suo yacht, ora nel casale della campagna senese. Sulla sua barca caricò un giorno di non molti anni fa Ubaldo Novembre, portiere in quelle stagioni calabresi, il secondo di Pellizzaro, che aveva perso una figlia di ventuno anni: «Dieci giorni nel mare greco per starmi vicino e provare a strapparmi un poco di dolore». La commozione di Ranieri dopo la vittoria del Leicester sul campo del Sunderland forse racchiudeva anche queste piccole cose, sentimenti ormai incomprensibili in questo sport in cui contano ormai soltanto i fatturati.
Sorprende dunque la romantica avventura delle Foxes. Una favola. Da non leggere ai bambini prima di metterli a letto. Perché la storia comincia con un “c’era una volta” brutto: un’orgia di tre giocatori del Leicester con tre prostitute thailandesi, tutto filmato e condito con insulti razzisti. La squadra, ottenuta la salvezza nella Premier della scorsa stagione, venne mandata in tournée premio nel sud-est asiatico. I proprietari sono thailandesi, quelli di King Power, il gigante del duty free. Tra i calciatori di quella serata a luci rosse c’era anche James, il figlio dell’allenatore Nigel Pearson. Una personcina a modo, Nigel. A un tifoso che lo contestava, gridò una volta: «Per me puoi anche morire». I tre a “luci rosse” vennero licenziati insieme all’allenatore. Così Ranieri l’estate scorsa arrivò nelle Midlands. «Alla squadra ho ripetuto più volte un concetto», tenne a dire a Stefano Boldrini della Gazzetta dello Sport: «Ragazzi, gli ho detto, quando ci ricapiterà un’occasione come questa?». Mai più, forse.