Danilo Maestosi
Due mostre a Palazzo Reale

Nuovo miracolo a Milano

Un omaggio a Studio Azzurro e un'opera del gruppo moscovita «AES+F» ripropongono (direttamente e indirettamente) l'impegno e il realismo magico del film di De Sica e Zavattini

Riemergo dalla sbornia di sensazioni di un week end in questa Milano di inizio aprile, straripante calderone e labirinto di eventi e mostre d’arte contemporanea, trascinandomi appresso come fili d’Arianna gli echi forti di due sogni. Bussole preziose i sogni, belli o brutti che siano, perché dei sogni e dell’universo cifrato in cui ci proiettano, l’arte si nutre e ci nutre.

Il primo sogno me l’ha regalato la mostra che a Palazzo Reale celebra i 32 anni di prestigiosa carriera di Studio Azzurro, un laboratorio di creativi di varie discipline che qui a Milano è nato e lavora e si è conquistato un ruolo di primo piano sulla scena internazionale, distillando orizzonti inesplorati di visioni e miraggi dai territori di confine tra cinema, fotografia, teatro, video, performance, tecnologia. Ritorni al futuro, li battezza con molta efficacia il filone di proposte nel quale l’assessore alla cultura Filippo Del Corno ha inserito questa retrospettiva e sul quale sta costruendo il rilancio di Milano come città guida del contemporaneo. Radici ben piantate, sguardi che scrutano le risonanze del passato e tuffi in avanti che anticipano il tempo che verrà: è da questo modello che l’arte di oggi può trovare impulsi per guarire dalla sua afasia, tornare a dialogare con chi la guarda e chi la compra.

Ritorno al futuro. Come appunto avviene nello spettacolo, creato per l’occasione, con cui Studio Azzurro onora la splendida cornice museale che lo accoglie: la sala delle cariatidi di palazzo Reale, un’immensa stanza rettangolare, in alto una volta ovale, sotto scheletri di statue antiche, divorate dai bombardamenti dell’ultima guerra.

miracolo a milanoMiracolo a Milano, si intitola. Molto più di una citazione, questo richiamo al celebre film di De Sica, sceneggiato da Cesare Zavattini, capolavoro del 1951, che segnò un inatteso e isolato scarto dal neorealismo di Ladri di biciclette e Sciuscià al realismo magico, sigillato dall’indimenticabile scena in cui uno stuolo di poveri capeggiato da un monello rimasto orfano che ruba le scope ai netturbini e con quelle si innalza in cielo sopra le guglie del Duomo, verso l’isola che non c’è della speranza, della libertà e del riscatto sociale.

Anche nella performance di Studio Azzurro protagonisti tornano ad essere i paria, al posto dei baraccati dell’immediato dopoguerra i nuovi poveri della crisi. Ti si materializzano davanti sui quattro grandi specchi sistemati nella sala. Il visitatore ci si specchia e appaiono le loro figure, a raccontarti ognuna la propria storia. C’è il pensionato che fa la fila alla mensa della Caritas, il bottegaio ridotto sul lastrico che ha perso la casa, il rumeno che si arrabatta con mille lavori diversi e malpagati, il migrante in attesa che gli concedano l’asilo politico o il visto per espatriare in Europa. E così via. Una Milano di emarginati che i benpensanti, nel loro ottuso egoismo, nel delirio delle paure immotivate che attanaglia il cuore, rimuovono, insultano ed osteggiano. Spazzatura da nascondere sotto un tappeto, che Studio Azzurro invece risolleva. Lo specchio riflette uomini come noi, capaci persino di ridere del proprio dolore. Le interviste raccolte da Studio Azzurro non forzano mai i toni. Poche frasi e via, con un colpo di tallone li vedi quei personaggi trasparenti perdere consistenza, schizzare verso l’alto. E unirsi al coro di figure che galleggiano sulla volta, come un trionfo di angeli barocchi e dall’alto ti guardano. Possiamo continuare ad ignorarli ora che abbiamo cominciato a conoscerli, a riconoscerli come compagni di strada più sfortunati?

Già. I poveri ci guardano. Il film di De Sica doveva intitolarsi proprio così. Ma i produttori che lo finanziavano, bocciarono quel titolo: troppo aggressivo, avrebbe spaventato gli spettatori. Oggi come allora la diversità continua a fare scandalo, non una carica di umanità in più, ma un nemico.

studio-azzurro2Non è l’unico eco d’attualità che riaffiora. Nel copione di Zavattini a costringere all’esodo finale verso il cielo quel popolo di diseredati sfrattati dalle proprie baracche è il fatto che sul loro terreno hanno scoperto il petrolio e il padrone è deciso a piantarci su pozzi e trivelle. Il riferimento al referendum imminente sulle perforazioni petrolifere che tanto infastidisce chi ci governa è davvero solo casuale? Domande più che legittime per il viaggiatore-spettatore di questo ritorno al futuro, che disseppellisce memorie dimenticate, trasforma l’ieri in oggi e domani. Per Studio Azzurro – ci spiega una nelle nuove leve chiamata a rivitalizzare il gruppo dopo la recente morte di Paolo Rosa, che ne era stato la mente e il fondatore – Miracolo a Milano apre una nuova feconda prospettiva di ricerca e d’impegno. Arte e tecnologia alleate per restituire agli esclusi diritto di parola ed esistenza. Come già Studio Azzurro aveva fatto, allestendo a Roma il Museo della Mente in un padiglione dell’ex manicomio dismesso del Santa Maria della Pietà. Immagini choc: all’ingresso un muro di figure trasparenti come fantasmi che si lanciano contro la barriera invisibile, lo schermo che per anni li ha isolati dal mondo e ogni volta sono respinti all’indietro. E macchine interattive che danno voce ai cimeli e agli arredi sgranati lungo il percorso: tocchi un tavolo, un foglio e la superficie prende vita, ti restituisce le storie degli internati; ti siedi, applichi una cuffia alle orecchie e senti voci che si accavallano ad ingombrarti il cervello, a trasmetterti l’esperienza di sdoppiamento della follia.

Lo spettacolo che si fa interattivo trascina lo spettatore, lo coinvolge nel ruolo d’attore. Un modo di reinterpretare arte e teatro che è entrato nel repertorio di Studio Azzurro dai primi anni Novanta. Con una serie di esperimenti e suggestioni folgoranti che questa mostra ripropone: ci si può rotolare su un tappeto mischiandosi ad altri corpi nudi che la nostra presenza rimette in moto; si può toccare un tavolo e vedere le immagini che lì sopra sono proiettate prendere vita, una fiamma diventare incendio, un vaso tracimare acqua, una donna discinta ridestarsi dal sonno. L’arte come un gioco collettivo, un riappropriarsi del senso della comunità attraverso mente e corpo. Una rivoluzione possibile di cui gran parte dell’arte di oggi ha smarrito il segreto e la necessità, appiattendosi su una società prostrata davanti ad un unico monolitico dio: il nume degli affari e della finanza.

AES+FIl secondo sogno mi resta impigliato dentro con il disagio di un incubo attraversando le sale di una mostra di contorno allestita a complemento di quella dedicata a Boccioni in un’altra ala di palazzo Reale: le opere di 46 artisti che dal secondo Novecento ad oggi hanno tentato di interpretare il futuro del nostro pianeta. È un opera multimediale realizzata dal gruppo «AES+F» che riunisce quattro creativi moscoviti. E ispirata alla festa di Trimalcione, episodio chiave del Satyricon di Petronio. Apparso a Venezia in una visione più spettacolare e frantumata su 8 maxischermi, è qui riproposta nella versione su un solo schermo, più modesta ma più concentrata e lineare di un lungometraggio. Lo si ripesca su Youtube, digitando il nome del gruppo e il titolo dell’opera: dateci un’occhiata.

È una profezia agghiacciante sul futuro di diseguaglianza che ci attende e già stiamo vivendo. Il mondo raccontato dalla parte dei nuovi ricchi, quelli che comandano il gioco e impongono le regole. Al rallentatore perché ogni gesto ci resti impresso nella memoria. Una parata di mostri partoriti dalla pagine patinate e dalla rubriche di consigli su svaghi, sesso e salute di una rivista di moda. Vecchi dai volti rugosi e impassibili che prendono il sole su una spiaggia simil-Caraibi, accarezzano con gesti morbosi bambini e bambine, ostentano disprezzo e buon gusto, ragazze che si carezzano e si offrono algide e distanti, donne e uomini che forgiano i muscoli pedalando sulle cyclette di una palestra come in una cavalcata delle valchirie, paesaggi e architetture che mutano in continuazione come in un catalogo di vacanze per vip. E attorno uno stuolo di servitori, hostess, camerieri, intrattenitori, diversi solo i costumi di scena e gli atti di apparente dedizione, ma stesse espressioni indecifrabili, stessa indecifrabile ostentazione di perfezione imperturbabile anche quando il gioco si fa più duro, scorre il sangue, uccisioni sadiche, catastrofe naturali, tsunami.

Un orrore lo spettacolo dei padroni, ancora più impressionante la visione degli schiavi. La via di una perdizione senza scampo. Nel nostro piccolo, inerzia dopo inerzia, non stiamo diventando anche noi così? E l’arte, le tante altre opere d’arte che qui a Milano abbiamo visto voltar a gran maggioranza le spalle sia al sogno che all’incubo, come di fronte a domande inopportune e indiscrete, come può aiutarci a venirne fuori?

Facebooktwitterlinkedin